Mentre scrivo l’incipit di questo pezzo mi assale il dubbio. Mi dico che forse è inutile in questi tempi raccontare la storia di un rifugiato politico e della sua famiglia, denunciare torture e elettroshock in Afghanistan, mentre lo spettro della persecuzione si affaccia anche in Italia. A chi la racconto una storia lontana? Mi dico mentre le parole aumentano nel foglio bianco. La risposta mi arriva al quinto rigo: a chi non ci sta, a chi non vuole che la terra libera in cui è nato da uomo libero diventi un paese razzista, drogato dalle fakenews, avvelenato dall’odio.
Allora, le storie iniziano spesso da un nome. Walì ha 22 anni ed è un rifugiato politico. A dire il vero il suo nome completo è Walimohammad Atai e ha un fratello più piccolo e un fratellastro medico. E la loro vicenda è la storia di tanti afgani. La loro vita una crepa nella ceramica dell’umanità. Spaccatura che l’occidente ha contribuito a creare e che non vuole veder riparata. Senza guerra non ci sono armi da vendere. Senza guerra non c’è petrolio da rubare.
“Mi chiamo Walimohammad, sono figlio di un medico ucciso dalla gente del suo villaggio perché parlava di libertà”. “Ero così piccolo che non l’ho mai conosciuto”, mi scrive in un’email. E’ la storia di una guerra che ci coinvolge anche quando voltiamo la testa dall’altra parte, anche quando eleggiamo leader che sventolano il drappo rosso che eccita la crudeltà umana.
La stragrande maggioranza dei migranti cui viene riconosciuto lo status di rifugiato politico fugge affrontano i pericoli per non morire. Non intraprendono il viaggio per cercare benessere ma per assolvere al compito primario di ogni specie, di ogni essere vivente sulla terra: sopravvivere.
“Mia madre mi raccontava che papà ha sempre consigliato alla gente del villaggio di non uccidersi per i vantaggi dei paesi stranieri e di mandare i loro figli e le loro figlie a scuola invece di farsi saltare in aria per andare in paradiso” dice Walì. Nel 2011 i Talebani aprono nei pressi del suo villaggio un centro di addestramento per i kamikaze, in cui veniva insegnato come farsi esplodere per Allah. “Tutti i giovani ragazzi invece di andare alla scuola elementare andavano alla Madrassa, la scuola coranica”, racconta.
In Afghanistan si prega, si mangia e si impara a morire per Allah.
Walì racconta che lui non vuole che il suo popolo combatta una guerra inutile, sebbene giovanissimo apre una scuola dove insegna inglese e informatica. I guai grossi suoi e del fratello iniziano a febbraio del 2012. “Avevo fatto una scultura che assomigliava a Buddha e io insieme al mio fratello Atai Dostmohammad l’abbiamo portata a scuola, era una cosa strana sia per gli insegnanti che per gli studenti, alcuni erano contenti di vederla mentre alcuni si sono arrabbiati. Ma poi è arrivato l’insegnante di teologia ed ha cominciato a rompere la scultura e ha detto ai ragazzi di picchiarci: sono tornato insanguinato. Nel villaggio si è sparsa la voce che io fossi un’infedele”.
Dopo un attacco americano in cui muoiono quattro talebani del suo villaggio, Walì viene accusato di essere una spia. “Il comandante dei Talebani insieme alla gente del posto sono andati a bruciare il centro in cui insegnavo, successivamente sono venuti a casa, mentre io ero fuori, e hanno torturato e picchiato tanto il mio piccolo fratello Dostmohammad che al fine è stato operato ai testicoli a causa di punizione. Sono riuscito a scappare nella provincia di Herat da dove ho lasciato subito definitivamente Afghanistan”. Mio fratello Dostmohammad invece una volta dimesso dall’ospedale ha cercato di frequentare la moschea non per Allah ma per la paura dei Talebani, Nel 2015 ha smesso di frequentare la Madrassa (Scuola coranica). Ma Dostmohammad è come me: cercava di far capire alla gente che non è giusto farsi saltare in aria per andare in paradiso. Nonostante il pericolo insegnava che non esiste il paradiso, che non si devono uccidere i bambini e le donne e che un’istruzione è utile”.
Parole che in quell’angolo di mondo possono portare alla morte: “L’imam del villaggio – racconta Walì – emise un decreto in cui era scritto che mio fratello Dostmohammad si era convertito al cristianesimo e stava cercando di far convertire i nostri figli, che doveva essere impiccato e lapidato davanti alla gente del posto e non doveva scappare come suo fratello”.
Il fratello più giovane di Walì scappa in tempo e raggiunge la Germania. Al fratellastro non va altrettanto bene. “Atai Liaqat Ali faceva il medico in un ospedale privato, e mentre si preparava per fare la specializzazione, fu avvicinato dai Talebani che gli chiesero di lavorare per loro. Al suo ennesimo rifiuto di collaborazione ha subito torture tramite l’elettroshock ed è stato abbandonato sul ciglio della strada. Da quel momento la sua vita è cambiata: ha subito gravi danni al cervello ed è diventato menomato. Per farlo riprendere la mia famiglia lo ha portato in un ospedale in Pakistan dove ha trovato un minimo di sollievo con una cura antipsicotica. Durante la sua permanenza in ospedale, i talebani hanno bruciato sia il suo ospedale che la nostra casa e la mia famiglia ha deciso di allontanare il mio fratellastro dall’Afghanistan e fargli fare il viaggio verso l’Europa”. “Adesso è riuscito ad arrivare in Italia dopo un viaggio difficilissimo per la sua condizione mentale e si trova in un centro per richiedenti asilo a Crotone; ancora manifesta i problemi derivanti dalle torture e ha paura di essere trovato dai talebani”.
Walì ora lavora in Italia, fa l’interprete e il mediatore interculturale per l’Associazione L.I.A. di Bergamo. Il suo posto di lavoro è in Puglia, nello Sprar – per i minori stranieri non accompagnati di Rodi Garganico (FG).
Il 22enne ha un’idea della situazione in Afghanistan: “Io mi domando come mai i talebani non vengono ancora sconfitti? Da chi sono armati? E la comunità internazionale davvero vuole aiutare o contribuisce alla situazione di instabilità? Da circa 18 anni la “coalizione” è in Afghanistan, ma sanno bene che tutto inizia in Pakistan, alleato degli USA e quindi non direttamente attaccabile”. “Direi che questa guerra nessuno ci tiene davvero ad interromperla e le persone come me vengono accusate di essere “convertiti” ed infedeli quando vorremmo solamente vivere in pace ed esprimerci liberamente come negli anni ’70 quando le donne non indossavano neanche il velo e il diritto all’istruzione era libero; il tutto pur essendo in un paese musulmano… questo a significare che il problema non è l’islam ma gli interessi che girano intorno all’Afghanistan”.
Domande che ci dovremmo porre tutti mentre in Italia, muezzin politici manipolano il rancore verso il diverso e chi la pensa diversamente. E nell’anima dell’Europa i semi dell’odio sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.
Gianni Svaldi