Schiave dell’ago e filo, la Moda italiana si indigna ma non dà risposte concrete

25 Settembre 2018
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La Camera Nazione della Moda Italiana (CNMI) respinge le accuse lanciate dal New York Times sulle dinamiche oscure del “Made in Italy” e si dice profondamente “amareggiata e perplessa” per quanto emerso. Il quotidiano americano, infatti, in questi giorni ha pubblicato una lunga inchiesta sul lavoro a domicilio, in particolare quello delle sarte pugliesi che per realizzare un cappotto in vendita a 2.000 euro in boutique, guadagnano al massimo 20 euro.

L’inchiesta parte dalla storia di una donna di Santeramo in Colle che lavora ogni giorno per un euro  al metro, realizzando i cappotti in lana della collezione invernale Max Mara. Il lavoro le è stato affidato da una fabbrica locale che produce capispalla per altre grandi firme internazionali come Fendi e Louis Vuitton. A Ginosa, una donna di 53 anni racconta di aver lavorato per una vita intera alla realizzazione di abiti da sposa con un salario di 1,50 euro l’ora, senza contratto né assicurazione.

Un caso che i vertici della moda hanno subito liquidato come “circoscritto, utilizzato per inquadrare un contesto più ampio, perdendone il senso generale”. Tale senso – secondo CNMI – è da rinvenire nelle misure che da diversi anni la filiera italiana affronta in termini di “sostenibilità”: fiore all’occhiello delle ultime fashion week e panacea per le coscienze. Nessun accenno alle donne che in Puglia lavorano da casa con salari al limite della sopravvivenza, considerate un numero esiguo e marginale, rispetto alle 620.000 persone impiegate dalla grande industria della moda.  Una percentuale che sarà pure esigua, ma non per questo trascurabile. La CNMI afferma che secondo “statistiche recenti, il numero di lavoratori irregolari è calato del 16% dal 2010 al 2015”, ma nulla viene aggiunto in merito a queste cifre che restano senza fonti certe. 

Tra i numeri del reportage americano, invece, ci sono quelli dell’Istat che nel 2015 registrava 3,7 milioni di lavoratori italiani in tutti i settori, senza regolare contratto. Attualmente non ci sono stime precise sui contratti irregolari, ma l’indagine del quotidiano statunitense ha rilevato situazioni così critiche per almeno 60 donne pugliesi che operano nella moda. Un numero destinato a rappresentare solo una piccola minoranza, considerando le stime di Tania Toffanin, autrice del libro “Fabbriche Invisibili”: stando alle sue ricerche, attualmente in Italia ci sarebbero dai 2.000 ai 4.000 lavoratori a domicilio irregolari, impegnati nella produzione di abbigliamento.

«Le fondamenta secolari del “Made in Italy” – spiega il NYT – negli ultimi anni sono state minate dal peso della burocrazia, l’aumento dei costi e della disoccupazione. Le imprese del Nord, dove generalmente ci sono più opportunità di lavoro e salari più alti, hanno sofferto meno di quelle del Sud, che sono state duramente colpite dal boom della manodopera straniera che ha indotto molte aziende a delocalizzare la produzione». Lo sfruttamento della manodopera a basso costo in paesi come Cina, Vietnam e Bangladesh rappresenta lo scheletro nell’armadio dell’attuale fast fashion che coinvolge sempre più brand. Sebbene le condizioni delle lavoratrici del terzo mondo non siano assimilabili a quelle delle sarte pugliesi, secondo il New York Times non si potrebbe dire la stessa cosa dei loro salari, nettamente al di sotto del minimo nazionale italiano di circa 5-7 euro l’ora. Paragone inaccettabile per la Camera Nazionale della Moda Italiana, secondo la quale «In Italia il salario minimo e gli stipendi sono stabiliti attraverso negoziazioni e accordi tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro e l’Italia vanta uno dei più alti indici di sindacalizzazione nel mondo, pari al 34,4%», non un primato vero e proprio se consideriamo che non raggiunge nemmeno la metà delle socialdemocrazie scandinave – Finlandia, Svezia e Danimarca – dove il tasso di sindacalizzazione sfiora il 70%, come riportano i dati del rapporto 2017 dell’Etui, l’Istituto di ricerca della Confederazione dei sindacati europei. 

La campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, in merito all’inchiesta del New York Times si è espressa con un post su Facebook, invitando i grandi brand italiani del lusso alla totale trasparenza della filiera produttiva. Una proposta lanciata diverse volte e già accettata da alcuni marchi stranieri come ASICS, ASOS, Clarks, New Look, Next e i Pentland Brands. Armani sarebbe tra i più reticenti a svelare le informazioni sulle proprie catene di fornitura. Nel 2017 lo stesso appello venne lanciato a PradaGeox e Tod’s nell’ambito di un’inchiesta sulla violazione dei diritti umani e sindacali degli operai che confezionano le loro scarpe: nessuna risposta è seguita da allora, solo denunce, querele e processi. 

Maria Teresa Trivisano 

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