Moria è il più grande campo profughi presente in Grecia e forse in Europa. L’isola di Lesbo è terra di approdo per molti migranti e simbolo del fallimento europeo nella gestione della crisi migratoria. Il campo è sovraffollato dal 2015 ed oggi ospita più di 7 mila persone. A settembre è arrivato a contenerne 10 mila. Confina con un insediamento informale dove i richiedenti asilo meno fortunati vivono in tende di fortuna e dove ci si protegge dal freddo con fuochi alimentati da materiali di scarto, plastica inclusa. Moria è un campo dove i migranti sono prigionieri delle istituzioni e della stessa isola.
Alessandro Barberio è uno psichiatra di Medici Senza Frontiere e lavora nella clinica di Mitilene a pochi chilometri dal campo. Supervisiona il suo team composto da 5 psicologi, 2 medici e 2 infermieri. Da quasi un anno si fa carico degli effetti dei traumi vissuti dai migranti.
Dottore, nel mese di settembre Msf ha denunciato la situazione vissuta a Moria definendola“un’emergenza senza precedenti, sia per la salute fisica che psicologica degli uomini, delle donne e soprattutto dei bambini”. Che tipologia di pazienti incontrate ogni giorno?
Quotidianamente curiamo persone provenienti dal campo. I pazienti giungono a noi grazie alle segnalazioni fatte dalle organizzazioni non governative con cui collaboriamo ma soprattutto dai colleghi della seconda equipe di Msf che ha il proprio presidio nei pressi del campo. I nostri pazienti arrivano in clinica con sintomi acuti, gravi e molto spesso invalidanti. Fondamentalmente presentano disturbi post traumatici da stress e sintomi psicotici che provocano allucinazioni uditive e visive con disorientamento, confusione e angoscia. La depressione e la disperazione ha spinto molti a tentare il suicidio. La clinica di Mitilene si occupa principalmente di maggiorenni ma ci sono stati riferiti di casi di minori con comportamenti suicidari più eclatanti.
Quali sono le cause di questi disturbi?
Sono la conseguenza di violenze orribili subite dai migranti nei propri paesi di origine e che si riacutizzano col passaggio nel campo di Moria dove le condizioni di vita sono molto deteriorate. I migranti che presentano questi sintomi provengono dall’Africa, in particolar modo dal Congo e dal Camerun. Molti di loro sono stati costretti a violentare le proprie madri e le proprie sorelle prima che venissero uccise davanti ai loro occhi. Chi arriva a Moria è un sopravvissuto fuggito dalla prigionia e da forme orribili di tortura.
Lo scorso settembre, ha paragonato il campo di Moria ad un manicomio
E lo confermo. Moria, è un manicomio a cielo aperto. L’unica area chiusa è quella della “detention area” riservata a persone che fondamentalmente verranno rimpatriate. Tutto il resto del campo è aperto. La situazione tra agosto e settembre era diventa insostenibile. Mi sembrava di tornare indietro ai tempi della lettura della descrizione dei reparti dei vecchi manicomi in Italia. Mi riferivo non solo alla sintomatologia psicotica ma soprattutto alle condizioni di vita del campo di Moria. Un manicomio a cielo aperto con diversi gradienti concentrici con intensità maggiore a Moria, che si estende per tutta l’Isola di Lesbo. Gli ospiti del campo, pur volendo, non potrebbero abbandonare l’isola.
Attualmente quali sono le condizioni di vita nel campo?
A settembre vi erano circa 10mila persone su una capienza massima di 3mila. Oggi, numericamente la situazione è migliorata, circa 2mila persone sono state trasferite sulla terra ferma, ma la qualità della vita a Moria resta drammatica. Mancano i servizi minimi di base, un posto accogliente dove dormire. Le docce sono lontane e insufficienti.
I migranti sono costretti a vivere tempi di attesa biblici. Un paziente mi ha raccontato che il suo primo appuntamento per sostenere l’intervista per il riconoscimento dello status di rifugiato è fissato tra gennaio e marzo del 2020. A volte l’appuntamento viene posticipato. Il migrante, inoltre, dovrà essere intervistato nel luogo di sbarco, pertanto dovrà far ritorno nel campo di Moria. Reputo grave che la comunità internazionale non stia facendo una riflessione diversa alla luce della situazione che quotidianamente viviamo sull’Isola di Lesbo. Stiamo vivendo e testimoniando una sorta di trauma collettivo che si sta espandendo. Prima o poi tutti ne pagheremo le conseguenze a livello sociale.
Un trauma è un solitamente un evento che sconvolge la vita di un individuo. Lei, invece, fa riferimento a qualcosa che sconvolge un’intera comunità nello stesso momento
Si tratta di un trauma che può riguardare un gruppo etnico, culturale. In questo caso, a mio avviso riguarda persone che hanno subito lo stesso tipo di violenza feroce e le relative conseguenze. In un manicomio il concentramento di persone con disturbi psichiatrici gravi favoriva la contaminazione psicologica o mentale. In psicologia e in psichiatria la trasmissione di determinati vissuti avviene attraverso la contaminazione psicologica, la vicinanza, la contiguità e soprattutto attraverso l’assenza di ulteriori risorse positive. Il trauma che viviamo sull’Isola di Lesbo, come tutti i traumi collettivi, è una cicatrice dell’umanità.
A proposito di chiusura. L’Europa conferma la linea dura. Ci sono voluti 19 giorni per far sbarcare 49 migranti nel porto di Malta.
La chiusura dei porti, alcune reazioni di rifiuto, di diniego e di difesa, possono facilmente essere definite razziste. Dopo dieci mesi di lavoro sull’isola, credo che la causa vada ricercata altrove. Queste reazioni sono di certo dettate da motivazioni economiche, politiche e di difficoltà nell’affrontare i fenomeni migratori ma anche perché inconsapevolmente abbiamo paura di essere uguali ai migranti.
La comunità europea sta vivendo negli ultimi anni una forte contrapposizione ideologica sul tema delle migrazioni. In molti hanno giustificato la situazione odierna richiamando la paura per il diverso
Le violenze subite dai migranti ci provocano comprensibilmente una reazione di orrore. Certe storie possono distruggere la mente e l’animo, togliere ogni speranza di vita. Pertanto forse è meglio tenerle a distanza e non farsene carico. In assenza di consapevolezza la cosa più semplice da fare è diventare nazionalisti o razzisti. Non perché siamo diversi ma perché siamo uguali. Se si continua ad assistere passivamente senza intervenire in maniera sistemica il problema nel tempo si diffonderà. La chiusura è una soluzione transitoria ma non è di certo un intervento di cura.
Vito Mariella