Per il vocabolario Treccani il figurante è una “Comparsa che agisce senza parlare o senza aver parte di rilievo in azioni sceniche, balli, cortei, ecc.”. Un ruolo assai meschino, direte voi che leggete. Ecco, il mio timore (spero infondato) è che la Sovrintendenza consideri i centri storici solo dei luoghi turistici, dei musei archeologici, presepi e non quello che in realtà sono: delle comunità dove vivono persone, famiglie, donne e uomini.
Spiego. Il centro storico di Martina Franca è il mio luogo dove tornare, quando il lavoro non mi fa girare l’Italia come una trottola. E ieri, per puro caso, ho incontrato per strada una delegazione della Sovrintendenza e del Comune di Martina Franca. Stando a quanto ho appreso, durante il tour tra le stradine la Sovrintendenza avrebbe lamentato l’eccessiva illuminazione di alcuni punti del centro storico di Martina Franca.
Sì, avete letto bene, l’eccessiva illuminazione.
Eccessiva? Il sovrintendente quando mi ha visto scettico, mi ha detto: “Faremo come a Venezia”.
Sebbene sia certo che l’intento del dirigente fosse quello di tranquillizzare i miei dubbi sulla poca sicurezza data da una tenue illuminazione, la notizia non mi ha affatto consolato: Venezia nel 2018 è stata al 14° posto tra le città italiane per reati (fonte Sole 24ore). Per darvi una idea la “pericolosa” Bari era solo al 26esimo, e la “pericolosissima” Taranto solo al 62esimo. Un dato infelice quello veneziano, di certo riconducibile – sottolineo – a una serie di concause ma che fa sorgere una domanda: l’illuminazione dei centri storici ha un ruolo determinante nella prevenzione del crimine?
Adesso, da vecchio cronista di nera, io la risposta la ho: ricordo che i poliziotti e i carabinieri – quelli con il pelo sullo stomaco – dicevano che l’illuminazione è un forte deterrente per la microcriminalità e, invece, le tenebre sono di grande aiuto ai manigoldi.
Al momento è una preoccupazione di uomo che sa bene che “a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”, ma il timore è che chi è delegato alla salvaguardia del nostro immenso patrimonio architettonico consideri i centri storici italiani e soprattutto del Sud Italia come delle attrattive turistiche, luoghi d’Arte (e lo sono, accidenti se lo sono) a uso turistico, musei archeologici dove gli abitanti sono dei gratuiti figuranti.
Se qualcuno lo pensa, amministratore pubblico o sovrintendente, si sbaglia di grosso. La donna che fa le orecchiette davanti alla porta di casa, quella che per strada fa l’uncinetto o fa il maglione ai ferri al nipote che quasi inesorabilmente emigrerà, la donna che stende i panni, l’uomo gentile che dà indicazioni ai turisti smarriti, i bambini che giocano per strada: tutte queste persone non sono comparse di un presepe, attrattive per turisti o avventori serali. Sono invece lavoratori, anziani, uomini, donne, operai, impiegati e professionisti. Raggruppiamoli: sono esseri umani, contribuenti che dovrebbero avere eguali diritti rispetto a chi vive in altri quartieri: quello di sentirsi sicuri, di avere dei servizi. Chi vive in un centro storico rinuncia a tanto: alla possibilità di parcheggiare l’autovettura sotto casa, rinuncia a dormire più di qualche notte estiva per il vociare spensierato e un po’ brillo dei passanti, ha la piccola casa invasa da buste della raccolta differenziata, e rinuncia a tante altre comodità. Ma ci vive lo stesso, è una scelta e come tutte le scelte ha i suoi pro e i suoi contro.
Il pericolo è che, se considerati musei a cielo aperto, Gardaland per turisti, i centri storici del Sud – tra questi quello di Martina – diventino presto un susseguirsi di B&B, ristoranti e bar: luoghi innaturali, “parchi di divertimento” con migliaia di turisti e nessun residente.
Quindi, cosa chiedere? Semplice: che ognuno faccia il proprio dovere.
Che la Sovrintendenza tenga in considerazione il contesto, metabolizzi che i centri storici non sono dei musei, ma luoghi vivi, da mantenere belli (sacrosanto) ma anche sicuri; che il sindaco e il Comune difendano (con coraggio) la collettività, promuovano il turismo ma non a danno del cittadino; e che i giornalisti – anche qui serve il coraggio – vigilino con tenacia su chi amministra in qualsiasi modo il bene pubblico, “bene” inteso non solo come valore economico per chi è nel business del turismo ma come valore umano e sociale.
Gianni Svaldi