La riduzione delle tasse, che a volte assume l’aspetto di una vera “ossessione fiscale”, è una proposta abbastanza generalizzata e assume aspetti e misure diverse. Persiste ormai da tempo l’interesse e l’opportunità di ragionare sull’assetto dell’imposizione fiscale italiana che, a causa di una serie di interventi normativi spesso privi di un disegno chiaro ed organico, appare, per riconoscimento unanime, iniqua e fonte di disuguaglianza e – non ultimo – fondamentalmente incapace di effettuare una raccolta delle risorse funzionale a sostenere un livello di spesa pubblica coerente con lo Stato sociale.
L’argomento della flat tax, ovvero la “tassa piatta”, irrompendo in un sistema già fortemente afflitto da inefficacia e squilibri, rischia di rappresentare un ulteriore elemento di distorsione a fronte di un impianto affetto da criticità sotto molteplici profili (forte riduzione dell’entrate, applicazione solo ad alcuni redditi): trattasi di un modello fiscale importato dagli Stati Uniti, ed ora introdotto nel nostro ordinamento dal Governo M5S e Lega con la Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019), il quale prevede un avvio graduale del nuovo sistema di tassazione, partendo dai professionisti e lavoratori autonomi con reddito fino ad € 65.000,00 e con una tassazione del 15%; un avvio che si sta dimostrando più difficile e complesso di quanto originariamente immaginato a causa delle specificità di un nuovo sistema che inevitabilmente agevola alcuni clusters di contribuenti mentre ne penalizza altri, con tutte le problematiche – e le speculazioni – di ordine politico che ne conseguono.
Eppure il modello di imposizione della “flat tax” è di per sé molto semplice: prevede infatti la tassazione secondo un’aliquota unica in luogo degli “scaglioni” attuali, ma la sua effettiva percentuale dovrà essere definita sulla base di criteri economici, prevedendo in particolare un sistema di deduzioni che decrescono all’aumentare della base imponibile, fino ad azzerarsi al raggiungimento di un livello massimo di reddito: in sostanza per i contribuenti fino a 65.000 euro – almeno inizialmente – sarà prevista una unica aliquota fissa, ma anche numerose deduzioni in relazione alla situazione personale, e di fatto l’imposizione non sarà propriamente “piatta”. Il meccanismo di calcolo che si sta delineando, arricchito dalle deduzioni – di cui in questi giorni si occupa diffusamente la stampa -, diviene allora strategico per permettere la salvaguardia del principio di progressività sancito dal comma 2, dell’art. 53 della Costituzione; si dovrà caratterizzare, quindi, per deduzioni modulate in base alla consistenza dei nuclei familiari e applicate in misura decrescente; in estrema sintesi, il nuovo regime dovrebbe indurre coloro che hanno redditi elevati ad investire maggiormente, ed al contempo consentire alle famiglie di aumentare i propri consumi grazie ad un più efficace valorizzazione dei carichi familiari. D’altra parte, la percentuale proposta del 15 % deve essere necessariamente addolcita da forti deduzioni, in quanto è proposta anche agli 11 milioni di contribuenti che attualmente hanno imposta zero, e più in generale alla fascia dei contribuenti da zero a 28.000 euro di reddito, ossia il 52,5% dei contribuenti, che attualmente ha un’aliquota effettiva del 14,4% (fonte: Corte dei Conti): in altri termini, senza forti deduzioni la flat tax al 15% non è una agevolazione, ma una penalizzazione per la maggior parte dei contribuenti.
I promotori della riforma ne esaltano i vantaggi sotto molteplici profili: maggiore semplicità e minore tassazione percentuale per i contribuenti, i quali sarebbero disincentivati da pratiche evasive; l’amministrazione finanziaria potrebbe finalmente concentrare la propria attenzione su problematiche rilevanti in funzione del gettito, riducendo la portata dell’evasione fiscale; le esigenze della famiglia riceverebbero un concreto riconoscimento economico ai fini del calcolo della capacità contributiva.
I detrattori delle nuove disposizioni incentrano invece i loro strali sull’abbandono del criterio di progressività sul quale il nostro sistema tributario dovrebbe essere informato, ai sensi dell’art. 53. Cost. , necessariamente letto insieme agli art 2 e 3, comma 2, Cost. Sul punto occorre premettere che l’originale impostazione fondata su un sistema fiscale incentrato su un’imposta sul redditi articolata in scaglioni progressivi oramai è tradita, con una escalation allarmante, da un coacervo di norme e normette in materia di imposte indirette o sostitutive, e da una selva di agevolazioni che proprio poco o nulla hanno a che fare con il principio di equità fiscale.
Ancora più controversi sono gli effetti impositivi derivanti dalla flat tax sull’equilibrio dell’attuale sistema economico reddituale: la tassa piatta, a maggior ragione se abbinata al reddito di cittadinanza, potrà agevolare tanto i possessori dei redditi più alti, quanto quelli di redditi più bassi, ma non potrà tradursi in alcun miglioramento per la classe media il cui gettito fiscale non subirebbe variazioni: e non è il caso in questa sede di soffermarsi sui sacrifici al quale è stata sottoposta negli ultimi anni la classe media.
Alla luce di queste brevi considerazioni appare chiaro allora come la flat tax non risolva i problemi del gettito fiscale e del reinvestimento sociale dei tributi, ma costituisca piuttosto un ulteriore tassello verso un sistema di tassazione proporzionale e non più progressivo; trattasi sicuramente dell’ulteriore passo in favore dell’abbandono della funzione redistributiva del Fisco, idealizzata dai teorici e dagli accademici, ma di fatto aggirata facilmente dai pratici in quanto incompatibile con l’attuale sistema economico globalizzato nel quale ogni Stato fa concorrenza fiscale agli altri per attirare i contribuenti più facoltosi.
Eppure, è bene ricordare ancora una volta che il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per il sostentamento dello stato sociale non deve passare necessariamente dal ricorso all’indebitamento (peraltro ora non più facilmente acconsentito dai vincoli comunitari) e alle entrate tributarie: non può essere infatti sottovalutato l’elevato potenziale dell’ingente mole di beni appartenenti al demanio statale, che potrebbe costituire fonte sicura da cui attingere le risorse destinate al mantenimento ed alla rigenerazione del sistema erogativo e di servizi. I beni storici ed artistici che costituiscono la proprietà pubblica possono, anzi devono, costituire uno strumento tipico di manovra del settore dell’economia e lo Stato ha il dovere di sfruttare questo patrimonio in vista del raggiungimento degli obiettivi sociali.
Si pone allora una nuova necessità di riconfigurazione dello stato Sociale che si evolva dal modello dello Stato regolatore tipico degli anni 80 e 90 del secolo scorso, a quello dello Stato produttore (si pensi, ad esempio, alla Reggia di Caserta la cui gestione manageriale da parte dello Stato ha portato ad un milione di visitatori nel 2018 con un incremento del 50% rispetto al 2015).
Peraltro, le emergenze del nostro sistema fiscale sono la sua semplificazione e la riduzione dell’evasione fiscale, criticità peraltro tra loro in parte connesse; occorre però considerare che la riforma della flat tax incide solo marginalmente su siffatte problematiche. La flat tax resta un sistema fiscale non progressivo ma proporzionale, basato su una aliquota fissa, che recupera un po’ di equità se accompagnato da deduzioni fiscale o detrazioni. Appare in contrasto con il principio della capacità contributiva, radicato nei Paesi occidentali dall’800, secondo il quale l’onere della copertura del costo della spesa pubblica è posto a carico dell’intera collettività tramite tributi applicati su basi imponibili considerate una misura del benessere (v. E. Longobardi (2017), Economia tributaria, McGraw-Hill Education); ne consegue allora che i giuristi considerano la flat tax un imbarbarimento del sistema impositivo.
Alla luce di quanto sopra, appare chiaro che la flat tax più che essere uno strumento per la semplificazione tributaria o per la lotta all’evasione, è preordinata al raggiungimento di scopi extra fiscali: rappresenta un esempio di funzione promozionale della leva fiscale, che affianca alla finalità tradizionale di procacciare adeguate entrate tributarie, quella di indurre i contribuenti verso un comportamento virtuoso, in questo caso rappresentato da un loro maggior impegno produttivo ripagato dallo Stato con una tassazione più leggera. E così la struttura tradizionale del tributo, basata su aliquote progressive – che quindi aumentano al crescere dell’imponibile – , cede il passo ad una imposta modellata su unica aliquota proporzionale (più o meno addolcita da deduzioni e esenzioni) in quanto la crescita economica del paese impone in questo momento qualche forzatura sulla perfetta equità della tassazione.
(fine prima parte, continua)
– Seconda parte
*Nicola Fortunato è professore associato di Diritto Tributario – Università degli Studi di Bari Aldo Moro