In Italia i migliori scienziati del mondo, ma la maggior parte delle imprese è antica
Michela Di Trani | 13 June 2017

Il Technology Report 2017 bacchetta il bel paese: il lavoro scientifico-accademico non si traduce in valore utile anche per l’industria. L’Italia investe solo l’1,3% del proprio Pil in ricerca e sviluppo, quasi 1/4 di Israele. Il rapporto: mancano un linguaggio comune tra Università e imprese e un’adeguata cyber-security

L’Italia è il primo paese nel mondo per qualità dei ricercatori. Ma spesso questo lavoro scientifico-accademico non si traduce in valore utile anche per l’industria. Il bel paese arranca quando bisogna tradurre l’operato di questi nostri scienziati in performance d’innovazione e tecnologia delle imprese. Se da un canto i ricercatori che lavorano nelle nostre università eccellono in pubblicazioni e citazioni su riviste e studi scientifici,  l’Italia investe solo l’1,3% del proprio Pil in ricerca e sviluppo, mentre in testa alla classifica mondiale si trova Israele (4,3%), seguita dalla Corea del Sud (4,2%). L’Europa si è data come obiettivo un ambizioso 3% medio, entro il 2020. È quanto emerge dal Technology Report 2017, uno degli studi più qualificati sullo stato dell’innovazione mondiale. Il rapporto, che in buona sostanza bacchetta il nostro paese, contiene i risultati del lavoro che la Community Innovazione e Tecnologia ha svolto negli ultimi dodici mesi, con dati, confronti, benchmark e spunti di riflessione dedicati ai policy maker e dei business leader per accelerare l’innovazione in Italia. Di contro, bisogna dire che finalmente l’ “Industria 4.0” ormai si pone a centro del dibattito di politica industriale del Paese. Il Governo a settembre scorso ha lanciato il Piano Nazionale di sviluppo industriale, finalizzato a stimolare lo sviluppo di infrastrutture e competenze adatte all’evoluzione dei sistemi produttivi per il potenziamento e il mantenimento della competitività nel breve e nel lungo periodo. Ma, a parte eccezioni (di alcune di queste abbiamo dato conto nel reportage da Futuro Remoto ndr) la maggioranza delle imprese italiane non sono ancora pronte alla sfida. E questo è un grande deterrente alla crescita del Paese, perché è scientifica la relazione diretta tra i livelli di innovazione, la produttività del lavoro e la crescita del prodotto interno lordo. Eppure i centri universitari italiani sono riconosciuti in tutto il mondo per le sperimentazioni di eccellenza. È di pochi giorni fa la notizia che nella rosa dei migliori giovani ricercatori al mondo in oncologia ci sono anche otto italiani, sei donne e due uomini, tra i 29 e i 36 anni, che si sono contraddistinti per i loro studi e che saranno premiati nei prossimi giorni a Chicago, al congresso dell’American Society of Clinical Oncology, con il Conquer Cancer Foundation Merit Award. E allora cosa fare per incardinare le grandi performance della ricerca italiana nel sistema industriale? Da una parte, per favorire lo scambio di professionalità sono necessari la creazione di un linguaggio comune tra il mondo accademico e quello industriale e l’incentivazione dello sviluppo di partenrschip pubblico-private. Sono dinamiche dell’Open Innovation che favoriscono anche l’internazionalizzazione delle imprese dei prodotti e servizi . In questo contesto diventa fondamentale anche la gestione del capitale intellettuale e della proprietà intellettuale, che secondo le recenti evoluzioni normative hanno favorito una nuova cultura all’interno di tante imprese italiane. Dall’altra, il sistema imprenditoriale-industriale dovrà necessariamente riconoscere i fattori preponderanti di una società connessa: l’avvento della robotica collaborativa in vari ambiti della quotidianità; le diverse tipologie di imprese e business model che si proporranno come volano di innovazione in diversi contesti e in rapporto a diverse culture e società (come si legge nel report di PWC “The future of work – A journey to 2022”); la digitalizzazione dei luoghi di lavoro; la coesistenza nei mercati di cinque “generazioni” caratterizzate da bisogni molteplici e differenziati; la necessità di considerare in modo adeguato la cyber-security; la necessità per i manager di diventare “digital thinkers”, di comprendere e governare i processi di modernizzazione digitale e per discernere quando sia opportuno o avventato procedere ad una ristrutturazione tecnologica nella propria azienda; l’importanza di saper amministrare gli asset di proprietà intellettuale e la governance delle operazioni in outsourcing. Queste tecnologie caratterizzano il potenziale dell’ “industria 4.0” e definiscono un approccio al business che permette alle aziende di essere più rapide nell’adottare strategie di risposta al mercato; più veloci ad ascoltare e rispondere alle esigenze dei Clienti; più efficaci nel creare e personalizzare nuovi prodotti e servizi. L’innovazione, dunque, si presenta come un’opportunità per tirarsi alle spalle la più grande crisi dal dopoguerra. I Paesi che hanno messo a punto il circolo virtuoso innovazione-produttività-crescita, sono quelli più competitivi nel lungo periodo e più resilienti alla crisi. Infine, l’innovazione è anche una questione culturale da acquisire a tutti i livelli dell’organizzazione aziendale. Comporta l’inserimento di nuovi modelli rivolti alla sperimentazione continua. Richiede l’accettazione e la valorizzazione dell’errore, che è fondamentale per aprire nuove strade. È questa dunque la più grande sfida per le imprese italiane.

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