Negli ultimi cinque mesi della mia vita ho seguito un master. Problem solving, time management, negoziazione, capacità di destreggiarmi in un V.U.C.A. world, acronimo che va molto di moda nel gergo aziendale perché descrive l’attuale contesto di mercato caratterizzato da Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity.
Non l’ho frequentato in una prestigiosa business school ma a casa mia. Il master che ho frequentato era del tipo learning by doing, imparare facendo. In che modo? Crescendo una figlia. Allattandola ogni due/tre ore. Interpretando le cinquanta sfumature del suo pianto. Inventando di continuo soluzioni creative per alleviare le sue coliche notturne. Facendola addormentare in fascia sul mio petto pur di avere le mani libere e passare l’aspirapolvere. Soddisfando la mia necessità di riposo in periodi di tempo mai superiori alle 3 ore. E, nonostante tutto, continuando a studiare, studiare e ancora studiare cose a me sconosciute fino ad ora. Una sete di conoscenza e di apprendimento continuo mi spinge a saltare da siti internet a forum, da dossier on line a chat dedicati a tutto ciò che ruota attorno a un neonato. Ho appreso quali sono i vantaggi del babywearing e le svariate combinazioni di tessuto che offre una fascia portabebè, potrei scrivere un trattato sull’autosvezzamento. Nonostante io dorma pochissimo rispetto alle mie necessità, dopo 5 mesi di questa vita da mamma il mio cervello è sempre più vigile e ricettivo, desideroso di incamerare nuove informazioni e di sperimentarne gli effetti sul campo.
Mi sono adattata al cambiamento che ha travolto la mia vita con la nascita di una figlia e ho imparato a governarlo. Il mercato in continuo mutamento come quello attuale impone spirito di adattamento e doti di change management per non soccombere. Una situazione piuttosto simile a quella di un genitore, che deve essere in grado di rispondere velocemente ai bisogni mutevoli di un figlio.
La versione potenziata di me stessa, senza doparmi. La mattina non prendo più il caffè: chi allatta, si sa, dovrebbe evitare la caffeina. Poco male. La carica naturale di energia deriva dalla tempesta di ossitocina da cui vengo regolarmente travolta più volte al giorno, che mi dona anche una forte carica di ottimismo e di fiducia, ingredienti fondamentali della gestione delle relazioni e dei team.
Il mio cervello - lo dice la scienza - sta diventando sempre più complesso. Il cervello è “plastico” e si sviluppa continuamente nell’arco della vita, soprattutto durante esperienze particolarmente coinvolgenti, ad esempio la maternità. Secondo studi recenti, la materia grigia aumenta nel cervello di una madre in un arco di tempo che va da 2-4 settimane a 3-4 mesi dopo il parto.
La neuroscienziata comportamentale Kelly Lambert, del Randolph-Macon College in Virginia, ha messo in evidenza i potenziamenti a livello cerebrale che avvengono nelle mamme. Nell’ipotalamo, la struttura del sistema nervoso centrale che governa l’attività endocrina, crescono il numero e le dimensioni dei neuroni, aumentando la produzione di ossitocina e di dopamina. L’ossitocina, cosiddetto “ormone dell’amore”, abbassa il livello di stress e aumenta la fiducia nel prossimo, la generosità e l’empatia. La dopamina invece, rilasciata nelle situazioni difficili, migliora il livello di attenzione, la memoria a breve termine, la capacità di rendere tanto pur dormendo poco, l’orientatamento ai risultati. Nell’ippocampo diventano più dense le spine dendritiche che servono ad accelerare la trasmissione dei segnali tra le diverse parti del cervello.
Queste trasformazioni sono causate non solo dagli ormoni, ma anche dai comportamenti ripetuti. Per quanto tempo dura questo potenziamento? “Sembra che gli effetti della maternità, come la super-percezione e lo sviluppo del cervello siano di lunga durata, o addirittura permanenti” afferma la Kelly Lambert.
A quanto pare, da quando sono mamma, sono la versione potenziata di me stessa. Sento che conquisterei il mondo se solo mia figlia mi lasciasse una manciata di tempo libero.
Lo stato di grazia che sto vivendo mi rende teoricamente molto appetibile per il mercato del lavoro. Le competenze che sto affinando sono particolarmente apprezzate dai recruiter alla ricerca del candidato ideale: conoscenze tecniche a parte, saper gestire efficacemente tempo, budget, obiettivi, essere empatica e ottimista, orientata al risultato e in grado di governare alti livelli di stress, saper elaborare risposte efficaci per nuovi bisogni emergenti… praticamente è il top per qualunque azienda. La bella notizia è che potenzialmente qualunque mamma rappresenta quel “top”.
Questo non significa che tutte le mamme siano automaticamente dotate di doti da grandi manager ma che, se opportunamente gestite, le competenze acquisite come mamma sono un asset da usare per la propria carriera. Occorre tirar fuori quelle doti, adattarle al contesto lavorativo, trarre vantaggio di quanto appreso fra pannolini e biberon in un mondo fatto di file excel e indicatori di performance.
Maam, maternity as master. La maternità può davvero essere intesa come un master. L’accoppiata funziona molto bene secondo Riccarda Zezza, mamma, manager, coautrice con Andrea Vitullo del libro “Maam. La maternità è un master”, co-founder di MAAM e CEO di Life Based Value. E soprattutto la mente che ha ideato il programma “Maam”, nato in Italia e oggi attivo in 23 Paesi, che eroga corsi di formazione a donne incinta e genitori - donne e uomini - con bambini da zero a tre anni, per far emergere e valorizzare i soft skill che si usano con i bambini ma che vanno benissimo anche con colleghi, clienti e team di lavoro.
In poche parole, quelle che i genitori dovrebbero sviluppare naturalmente, se opportunamente canalizzate si trasformano in competenze chiave per la crescita professionale. La teoria che la maternità (e la paternità) sia un master in soft skill è nata nel 2012 in Italia proprio da Riccarda Zezza, che nel 2019 è stata selezionata da Ashoka tra le 40 imprenditrici sociali che guidano l’innovazione “di genere” nel mondo. Individuare ed evidenziare nella maternità un elemento chiave di leadership cambia i vecchi paradigmi del mondo del lavoro e genera indubbiamente crescita e benessere sociale. Svariate aziende (fra le tante, citiamo Luxottica, Nestlé, Ikea, Poste italiane, Enel, Eni, Coca Cola, Oviesse, Penny market, Bottega veneta, Unicredit, Unipol) ci hanno creduto e stanno proponendo ai propri dipendenti i corsi e workshop di Maam, in presenza o sulla piattaforma e-learning.
Mamma e manager efficace, le aziende se ne sono accorte? La maternità è una palestra per esercitare la leadership e tutte quelle soft skill che consentono a una donna di operare e competere con successo nel mondo del lavoro. Tutto verissimo. Ma questo viene riconosciuto in ambito lavorativo, al di là delle aziende che hanno adottato il programma Maam? Le aziende si rendono conto del potenziale che hanno fra le mani? Considerano la maternità un valore aggiunto? Non sempre, purtroppo. La maternità, anziché essere vissuta dalle lavoratrici e dai datori di lavoro come un periodo di crescita e aggiornamento professionale, spesso diventa sinonimo di orario ridotto per l’allattamento, part time, assenze per la malattia dei figli, stop alla carriera, progressiva diminuzione delle mansioni di responsabilità affidate alle lavoratrici che sono anche mamme.
Questo è evidente soprattutto in Italia dove nascono sempre meno figli a causa di una cultura del lavoro obsoleta nonché dell’assenza di servizi di welfare: secondo dati ISTAT 2017, la denatalità in Italia ha toccato un nuovo record, registrando la nona diminuzione consecutiva: con un numero medio per donna pari a dopo aver raggiunto il suo massimo di 1,46 figli nel 2009, ora l’Italia è tornata ai livelli del 2004 con 1,34 figli. Per questo stesso motivo le italiane diventano madri sempre più tardi: secondo dati Eurostat, con una media di 31 anni, l’Italia è in vetta alla classifica europea per anzianità delle donne al primo parto. L’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro evidenzia che il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva poiché ha dovuto sacrificare la carriera professionale a vantaggio degli impegni familiari. Il Rapporto Asvis (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) del 2017 mette in rilievo che la carenza di servizi e un “insufficiente sostegno alla maternità e paternità fanno sì che il 30% delle madri che hanno un lavoro lo interrompa alla nascita del figlio”.
Nel Belpaese che celebra i valori della famiglia in modo pacato o estremista (come è avvenuto a Verona dal 29 al 31 marzo 2019 durante il Congresso Mondiale delle Famiglie), in concreto si fa ben poco per sostenere le famiglie e la genitorialità. Mancano politiche serie e lungimiranti. Manca il welfare. Il supporto economico è ridicolo. Prosperano i servizi forniti dai privati a costi esorbitanti (nessun genitore risparmierebbe mai sulla salute di un figlio o sulla scelta di una baby sitter o di un asilo nido affidabile).
La cancellazione del bonus baby-sitter e del bonus asilo nido, appena esclusi dalla legge di bilancio 2019, segna un altro duro colpo al risicato bouquet di aiuti alle famiglie. Che cosa rimane? Il bonus bebè (legato al reddito) e il “bonus mamma domani” (800 euro per le nascite e per le adozioni), misure del tutto insufficienti per chi ragiona sul lungo periodo. In Belgio, ad esempio, lo stato supporta le famiglie con 250 euro al mese per ogni figlio fino al diciottesimo anno di età, a prescindere dal reddito dei genitori. In Germania durante la maternità obbligatoria si percepisce lo stipendio pieno (in Italia l’80%), la maternità facoltativa può durare fino al compimento di un anno di vita del bambino ed è retribuita al 67% (in Italia può durare un massimo di sei mesi ed è retribuita al 30%). In Svezia, terra della cuccagna per la famiglia, c’è parità di trattamento di mamme e papà. Lo stato assicura l’80% dello stipendio per tutto il periodo di assenza dal lavoro e molte aziende aggiungono qualcosa in più. Ecco perché in Svezia le scuole d’infanzia non accettano bambini prima che compiano un anno. Questo sistema assicura alla Svezia alti tassi di fertilità e livelli altissimi di occupazione femminile. Ed emerge la voglia di protagonismo dei papà nella cura dei figli: nove padri su dieci decidono di sospendere il lavoro per un minimo di 4 mesi, ma molti restano a casa perfino un anno per accudire i figli.
E in Italia? Quando si sceglie di aver figli – lo definirei un “atto di coraggio”, soprattutto quando non si può contare sull’aiuto dei nonni – la vita di una mamma lavoratrice diventa particolarmente complicata. Non a caso le madri sono definite “equilibriste” nel rapporto “Le equilibriste: la maternità in Italia” divulgato da Save The Children nel maggio 2018. La ricerca sottolinea un peggioramento generale dell’Italia per quanto riguarda l’accoglienza dei nuovi nati e il sostegno alle mamme. Il rapporto mette in evidenza le solite ataviche differenze tra regioni del Nord, sempre più virtuose a parte poche eccezioni, e quelle del Sud, troppo spesso carenti di servizi e di sostegno alla maternità. Le Province autonome di Bolzano e Trento si confermano rispettivamente al primo e secondo posto della classifica, seguite da Valle D’Aosta (3° posto), Emilia-Romagna (4° posto, dieci anni prima era al primo posto), Friuli-Venezia Giulia (5° posto) e Piemonte (6° posto). Maglia nera alla Campania, la peggior regione “mother friendly”. Pessime performance anche per Sicilia (20° posto), Calabria (19° posto), Puglia (18° posto) e Basilicata (17° posto).
Tanta retorica, ma poca reale attenzione viene riservata alle mamme che affrontano quotidianamente gli ostacoli legati alla cura dei figli e le difficoltà di conciliare vita familiare e professionale. Le cose forse cambieranno quando il loro “master” sarà finalmente riconosciuto e apprezzato al di fuori delle mura familiari.
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