Strage del Rana Plaza, dopo 5 anni ci sono ancora vestiti macchiati di sangue
Nell'aprile del 2013, il crollo di un edificio tessile in Bangladesh causò la morte di 1.129 operai. Per ora è cambiato poco: parte del Fast Fashion ancora oggi è accusato di esternalizzare la produzione senza garantire i diritti umani essenziali per migliaia di lavoratori
Maria Teresa Trivisano | 27 April 2018

Il 24 aprile 2013 è una data che rimarrà per sempre una ferita aperta nel mondo della moda. Una traccia di sangue indelebile: quello versato dalle 1.129 persone, morte nella tragedia di Rana Plaza alla periferia di Dacca, capitale del Bangladesh. Una morte annunciata dai numerosi operai tessili che più volte - secondo quanto si è appreso in seguito -  avrebbero segnalato la pericolosità di alcune crepe nella struttura in cui trascorrevano circa quindici ore di lavoro al giorno per guadagnare 60 dollari al mese. Voci soffocate per sempre dalle macerie di un crollo che passerà alla storia come il peggior disastro nell'industria dell'abbigliamento.

L'edificio di otto piani ospitava diversi stabilimenti tessili in cui ogni giorno migliaia di persone lavoravano in condizioni precarie di igiene e sicurezza per produrre collezioni di abbigliamento low cost, appaltate dai grandi marchi occidentali. Il Bangladesh è il secondo esportatore d'abbigliamento al mondo, dopo la Cina. La maggior parte dei dipendenti sono donne, costrette ad abbandonare i propri figli per dedicarsi totalmente al lavoro in fabbrica. Se fino agli anni '60 il 95% dei vestiti era prodotto in America, oggi il 97% è esternalizzato in paesi in via di sviluppo dove i sindacati sono poco influenti e gli abitanti non hanno grandi alternative per sopravvivere, disposti a sottostare alle logiche infernali delle "fabbriche sfruttatrici".

L'anno dopo il disastro di Rana Plaza è stato uno dei più redditizi per l'abbigliamento. L'industria globale della moda è un settore da quasi tre triliardi di dollari all'anno con un impatto sociale fondamentale. Attraverso i vestiti comunichiamo ciò che siamo e stare al passo con le tendenze è diventato vitale per sentirsi parte integrante di un meccanismo che ruota attorno alla logica del consumismo. È la macchina del Fast Fashion (la moda veloce) che ha reso i vestiti dei capi "usa e getta", grazie ai loro prezzi bassissimi e all'aumento schizofrenico delle collezioni che si susseguono in un anno. Non ci sono più le quattro collezioni stagionali, ma ogni settimana, brand come H&M, Zara e Primark propongono qualcosa di nuovo sfornando circa 52 stagioni all'anno. Più è dislocata la produzione, più i prezzi diminuiscono: l'unico interesse dei grandi marchi riguarda il prezzo. La possibilità di vendere un jeans a cinque dollari vale di più di una vita umana.

Dal punto di vista socio-culturale, il Fast Fashion ha consentito una democratizzazione della moda, permettendo a chiunque di accedere alle tendenze del momento, ma contemporaneamente ha reso il consumatore meno consapevole dei suoi acquisti. L'impatto ambientale di questo mercato è devastante perché aumenta la quantità di rifiuti tessili, realizzati prevalentemente con fibre sintetiche a basso costo, non biodegradabili. Rifiuti che restano nelle discariche e rilasciano gas dannosi nell'atmosfera.

Il crollo di Rana Plaza ha sollevato l'indignazione di numerose associazioni impegnate nel commercio equo solidale e ha portato alla sigla del  "Bangladesh Accord on Fire and Building Safety". Un accordo sottoscritto nel 2013 e con scadenza al primo maggio, per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh, nato dall'azione della Clean Clothes Campaign: la più grande alleanza di sindacati e organizzazioni non governative, impegnate nel miglioramento delle condizioni lavorative nel settore dell'abbigliamento. Dopo cinque anni dalla nascita di quell'accordo, sono stati completati l’85% degli interventi riparatori in tema di sicurezza, identificati durante le ispezioni iniziali.

Oggi, l'obiettivo resta quello di portare avanti la battaglia facendo pressione sui marchi internazionali affinché sottoscrivano l'Accordo di Transizione 2018 per proseguire l'impegno svolto in questi anni e garantire i diritti umani essenziali a tutti i lavoratori. L'estensione del programma è stata già firmata da 140 marchi. Fra quelli che non hanno mai sottoscritto l'accordo, ci sono: The North Face, Timberland, Lee, Gap, Decathlon e Ikea, chiamata ad assumersi la propria responsabilità per la produzione di accessori tessili, anche se non propriamente di abbigliamento. Sono previste mobilitazioni in tutto il mondo e numerose petizioni online.

 

 

 

 

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