L’assenza di posti di lavoro genera rabbia e frustrazione, che si trasformano in odio nei confronti di lavoratori provenienti da altri paesi dell’Africa. Reportage da ciò che rimane della “nazione arcobaleno”, nelle ultime quattro settimane teatro di feroci attacchi contro i migranti
di Tiziana Sforza
CAPE TOWN – “Non frequento i miei connazionali nigeriani per non essere esposto ad attacchi xenofobi”. Preferisce non rischiare Olalou Fadeyi, ricercatore nigeriano al secondo anno di un PhD in chimica presso la Cape Peninsula University of Technology di Cape Town. I nigeriani sono stati uno dei principali bersagli nelle manifestazioni xenofobe che nelle ultime settimane hanno reso la vita difficile alle comunità straniere che vivono a Johannesburg e Pretoria. Automobili e negozi dati alle fiamme, spedizioni punitive, tafferugli e marce di protesta vanno avanti da metà febbraio, e hanno portato nuovamente alla ribalta il tema della violenza xenofoba, frutto delle drammatiche diseguaglianze che affliggono il paese.
Dopo i tragici episodi di xenofobia del 2008 e del 2015, che portarono alla morte di oltre 60 migranti (alcuni dei quali uccisi a colpi di machete), un mese fa l’odio si è risvegliato. Oltre a “rubare il lavoro”, i migranti sono accusati vendere droga ai sud africani e di gestire business criminali.
Il paese è diviso: la società africana post-apartheid non è inclusiva e aperta alle diversità come ci saremmo potuti aspettare.
Jacob Zuma, presidente del Sud Africa, ha piu’ volte condannato le marce e gli episodi anti-migranti: “I sud africani non sono xenofobi e gli stranieri contribuiscono a sostenere l’economia del paese”. Ma le sue parole non hanno calmato la rabbia dei manifestanti.
Sud Africa, la “terra promessa” che tradisce le sue promesse
Che cosa sta succedendo? Che fine ha fatto la “nazione arcobaleno” tanto decantata all’indomani delle elezioni presidenziali del 1994 che portarono alla vittoria di Nelson Mandela? La risposta, amara e corrosiva come solo la satira sa fare, è nella vignetta di Nathi Ngubane, graphic designer del Daily Vox, che raffigura in due riquadri limitrofi le relazioni di forza durante e dopo l’apartheid. L’atteggiamento rimane lo stesso, cambia solo il bersaglio.
I migranti hanno cominciato ad arrivare in Sud Africa nella metà degli anni Novanta: al termine dell’apartheid il paese, guidato dal National Congress, era considerato un rifugio sicuro da chi era in fuga da regimi autocratici di altri paesi africani e una terra di opportunità da chi proveniva da paesi più poveri. Sebbene i migranti provenissero da paesi africani che avevano contribuito concretamente alla caduta dell’apartheid, molti sud africani black si sono dimostrati ostili, un sentimento attribuito alla crescente frustrazione dovuta alla mancanza di lavoro e alla diseguaglianza economica. “La xenofobia non è cominiciata all’improvviso”, ha spiegato due anni fa André Duvenhage, professore alla Northwest University del Sud Africa. “Era già presente nei decenni precedenti, seppure a bassi livelli, a causa delle difficili condizioni economiche”.
Ristagno dell’economia e aumento di disoccupazione e povertà vanno di pari passo con la recrudescenza degli attacchi contro gli immigrati. La prima ondata violenta di attacchi xenofobi, nel 2008, era avvenuta al culmine della crisi finanziaria globale. Le tensioni sono riprese proprio ora che l’economia sudafricana è di nuovo ad un “crocevia”.
Un paese che continua ad attrarre
Perché il Sud Africa continua a essere il paese dei sogni per migranti economici e richiedenti asilo provenienti da altri paesi africani? Perché, nonostante la manifesta indisponenza da parte dei sud africani black, qui continuano a riversarsi migliaia di angolani, mozambicani, zimbabwesi, ruandesi, congolesi, somali, etiopi e via dicendo? Semplice: maggiori opportunità di lavoro. Nonostante l’elevata disoccupazione, il paese rimane una delle più grandi economie dell’Africa.
Il Sud Africa, insieme alla Nigeria, è il motore trainante del continente. Ma, a differenza della Nigeria, non ha movimenti come Boko Haram né è toccata dalla piaga del fondamentalismo islamico. Inoltre ha una legislazione che consente ai richiedenti asilo di studiare e lavorare mentre attendono risposta alla loro richiesta di status di rifugiato (che, a volta, può arrivare dopo svariati anni).
I migranti che vivono in Sud Africa non sono molti, se confrontati con il numero complessivo della popolazione. Anzi, stanno perfino diminuendo. Un report redatto dal Governo riferito al 2016 parla di 1 milione 600mila stranieri, a fronte dei 2milioni e 200mila registrati nel 2011, in paese che ha circa 56 milioni di abitanti. L’African Institute for Migration and Society stima una cifra compresa fra 1,6 e 2 milioni di migranti regolari e irregolari che vivono in Sud Africa, la maggior parte dei quali provenienti da paesi membri della Southern African Development Community (SADC). Altre fonti affermano che il numero di migranti delle statistiche ufficiali è fortemente sottostimato: sarebbero in realtà circa 5 milioni, di cui 3 provenienti dal Zimbabwe.
Una convivenza complessa
“Sin da quando sono arrivati i primi migranti, nel 1994, il governo ha dimostrato la sua incapacità di creare posti di lavoro. Il Paese ha dovuto affrontare estrema povertà, disuguaglianza e disoccupazione. Quindi il livello di frustrazione popolare è cresciuto, portando agli attacchi xenofobi”, spiega Mienke Mari Steyler dell’Institute for Race Relation, “i Sud Africani black ritengono che i migranti rubino loro opportunità di lavoro, soprattutto i piccoli esercizi commerciali negli insediamenti informali come le township, dove il livello di povertà e rabbia è elevatissimo”, aggiunge Steyler. Tanto che piu’ che di ‘xenofobia’, si parla di ‘Afrofobia’ in quanto e’ rivolta quasi esclusivamente verso i migranti provenienti da altri paesi africani.
Non a caso, gli spaza shops (negozietti che vendono un po’ di tutto a prezzi irrisori) gestiti da somali ed etiopi prosperano nelle township e sono spesso presi di mira durante le proteste anti-immigrati.
Le dichiarazioni xenofobe dei leader nazionali hanno contribuito ad alimentare il problema. Re Goodwill Zwelithini, leader tradizionale del gruppo etnico Zulu, nel 2015 ha affermato che i migranti africani sono colpevoli di “rubare posti di lavoro e risorse pubbliche destinate ai locali” e dovrebbero “prendere le proprie cose e andarsene”.
Makgoka Lekganyane, portavoce di Mamelodi Concerned Residents, uno dei movimenti che ha organizzato le ultime manifestazione anti-immigrati, ritiene che gli stranieri abbiano una influenza negativa, vendano droga ai giovani sudafricani e rubino loro posti di lavoro e opportunità di business. “Ci sono molti immigrati che entrano illegalmente in Sud Africa. Aprono spaza nelle township e fanno fallire gli spaza locali”, dice Lekganyane. “Non abbiamo mai avuto la possibilità di crescere”.
Questi discorsi fanno presa sui sud africani black, tant’è Amnesty International ha biasimato il fallimento delle autorità nel contrastare la retorica populista tossica che trova capri espiatori in rifugiati e migranti.
Dall’apartheid alla xenofobia
Esiste una correlazione fra apartheid e xenofobia? Una delle tesi piu’ diffuse, ripresa qualche tempo fa da David Smith, corrispondente del The Guardian a Durban, è che oltre ad essere una delle società più variegate al mondo dal punto di vista etnico, il Sud Africa è anche quella in cui le diverse comunità spesso sono profondamente intolleranti le une nei confronti delle altre. Questo atteggiamento affonderebbe le radici nell’apartheid, basato sulla ghettizzazione di alcuni gruppi etnici per il colore della pelle o la lingua parlata, che ha lasciato un’eredità di pregiudizi interraziali adesso rivolti contro i cittadini provenienti da altri paesi africani. A questo si lega la tesi del popolo oppresso che si trasforma in oppressore, richiamata appunto nella vignetta di Nathi Ngubane citata in questo articolo: dopo aver patito per decenni la segregazione operata da una minoranza di white, i black ora negano l’integrazione agli immigrati.
Migranti e mercato del lavoro: rubano davvero le opportunità ai locali?
A Cape Town, Johannesburg e Pretoria hanno sede grandi aziende e gli uffici locali delle multinazionali, inclini ad assumere personale multilingue come gli immigrati. La maggior parte dei tassisti e dei gestori di una licenza UBER che lavorano nelle metropoli sud africane sono nati nei paesi limitrofi. Hotel, imprese di pulizia e imprese edili ingaggiano personale straniero soprattutto per pagare salari più bassi.
Ma non è solo questione di salario. Secondo una contestata ricerca appena pubblicata dall’Institute of Race Relations (“South Africa’s Immigrants: building a new economy”), i migranti sono apprezzati dai datori di lavoro per la resilienza, la grinta, la forte motivazione che dimostrano nel contesto lavorativo, il livello di istruzione più elevato rispetto ai “concorrenti”
black sud africani che, all’opposto, sarebbero connotati da una certa “pigrizia” o “minore attitudine all’impegno”.
Al di là delle conclusioni più o meno attendibili a cui arriva la ricerca e dei pregiudizi – positivi e negativi – che alimenta, resta il fatto che la migrazione di per sé rappresenta una selezione darwiniana: nella maggior parte dei casi, chi sceglie di andar via da un paese in guerra o al collasso economico, affronta i disagi del viaggio, apprende una nuova lingua da adulto e riesce a integrarsi altrove, ha una marcia in più e i suoi pregi emergono chiaramente anche nel mercato del lavoro, quando si riesce a trovarne uno.
E se il lavoro non c’è?
I migranti arrivano in Sud Africa animati dalla speranza di una vita migliore. Ma la trovano sempre? Una parte di loro riesce a realizzare il south african dream. Un’altra parte vive peggio di come stava prima di migrare. “Alcune volte capita che, una volta giunti in Sud Africa, si ritrovano in condizioni peggiori di quelle in cui vivevano nei loro paesi di origine”, dice Father Gerardo Garcia, sacerdote della congregazione degli Scalabriniani in servizio alla parrocchia Holy Cross, che offre supporto concreto alle comunità di migranti che vivono a Cape Town “ma almeno qui hanno la speranza di poter migliorare la propria vita con un lavoretto, seppure misero. La differenza è fatta dalla presenza o meno di una rete familiare o amicale che agevola l’integrazione del neoarrivato. E’ decisamente più facile integrarsi per chi raggiunge dei familiari o degli amici loro connazionali che possono fornire alloggio e un primo supporto economico. Quelli che invece non hanno nessuno e non trovano lavoro o aiuto per soddisfare bisogni primari, sono condannati a vivere ai margini della società”. Esattamente come i sud africani black, con cui condividono il marciapiedi su cui dormono tutte le notti.