Gli italiani di ieri come i neri di oggi. Intervista alla prof.ssa Anna Morelli
Carmela Moretti | 20 June 2016


Si potrebbe restare per ore a parlare con la professoressa
Anna Morelli, talmente è piacevole il suo fare e saggio il suo pensiero.

Nipote di un rifugiato politico e docente di Storia all’Università di Bruxelles, ha consacrato gran parte della sua carriera allo studio delle minoranze e dell’immigrazione degli italiani in Belgio, di cui è attualmente una delle massime esperte.

prof-morelliDall’opera “Rital-littérature. Anthologie de la littérature des Italiens de Belgique”, edito nel 1996, fino al suo recente lavoro dal titolo “Recherches nouvelles sur l’immigration italienne”, la Morelli (che si definisce atea e comunista) fa la spola tra il suo Paese e il nostro per offrirci una serie di spunti interessanti. Perché i nostri connazionali lasciarono l’Italia in quel lontano ’46? Che cosa trovarono in Belgio al loro arrivo? Quanto è stato duro il processo d’integrazione?

Nel 70esimo anniversario dell’accordo italo-belga e nel 60esimo anniversario della tragedia di Marcinelle, è d’obbligo ripensare a questo triste capitolo della storia d’Italia.

 

Professoressa, il suo cognome è italianissimo. Anche Lei è un’immigrata?

Sì, i miei nonni hanno lasciato l’Italia nel ‘21. Sono andati a vivere prima nell’Unione Sovietica e mio padre è cresciuto a Mosca. Lì hanno avuto la cattiva idea di essere trozkisti comunisti, quindi, dopo il ’30 non era più possibile rimanere in Unione Sovietica. Sono andati in Svizzera, poi sono stati espulsi anche da lì. Sono andati in Francia e hanno messo su un negozio, ma sono stati espulsi anche dalla Francia. Alla fine della guerra erano qui in Belgio, ci sono arrivati per caso perché non sapevano più dove andare. Non potevano tornare in Italia, perché nel tabellario politico c’era scritto chiaramente che mio nonno era un pericoloso trozkista schedato, da arrestare immediatamente alla frontiera.

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Quando parliamo degli italiani in Belgio pensiamo al successo di Elio di Rupo, Adamo e Rocco Granata. Nelle sue conferenze, invece, ci tiene a precisare che tanti sono stati gli episodi di razzismo…

La mia famiglia mi raccontava che è dovuta restare per un anno in un albergo, perché nessuno voleva affittare una casa a una famiglia italiana, soprattutto con cinque bambini. I miei compagni di scuola canticchiavano “Morelli Maccaroni”. Ancora, era molto frequente impedire ai giovani italiani di entrare ai balli che venivano organizzati, perché si credeva che volessero soltanto adescare le ragazze. E soprattutto, gli italiani erano considerati approfittatori della sicurezza sociale, tanto che circolava una canzoncina: “à la mutuelle que la vie est belle!”. Insomma, tutti atteggiamenti che non erano proprio simpatici.

 

Immigrazione di ieri e immigrazione di oggi: quali sono le analogie e quali le differenze?

Le differenze sono visibili nel livello di educazione. Gli immigrati del ’46 non avevano avuto la fortuna di poter studiare, quelli che arrivano oggi sicuramente non sono tutti cervelli, ma certe volte hanno un livello d’istruzione importante. Inoltre, il legame con gli amici e la famiglia adesso è più stretto e si ha quasi la sensazione di non aver lasciato la propria casa, mentre in passato bisognava aspettare quindici giorni per ricevere una lettera. Il punto comune è che tutti vogliono migliorare la propria situazione. La speranza di migliorare la propria vita è l’aspetto che accomuna tutte le immigrazioni, che siano di operai, intellettuali o funzionari politici. Si scappa sempre da qualcosa: dalla repressione politica, dalla guerra o dall’insoddisfazione economica.

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Se volessimo idealmente pensare a una soluzione per fermare questo fenomeno, lei cosa proporrebbe?

Non ci sarebbe immigrazione se il livello economico dei Paesi fosse equiparato. Oggi ci sono espulsioni di italiani dal Belgio, perché sono considerati turisti sociali, invece è possibile restare solo se si è lavoratori o studenti. Se non ci fosse questa differenza economica tra gli Stati, non ci sarebbe nemmeno il turismo sociale.

 

Come giudica la scelta di alcuni Stati europei di alzare barriere contro i flussi migratori?

È un discorso complicato. Le frontiere totalmente aperte fanno la fortuna del patronato, perché arriva manodopera a basso prezzo su cui il profitto è massimo. Le frontiere totalmente aperte non sono la soluzione giusta, dal momento che alcuni popoli hanno lottato per avere una certa condizione sociale.

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