Avevamo lasciato miss Lizzie, la curiosa viaggiatrice, alle prese con Vienna e le sue bellezze. Fonti a noi vicine rivelano di averla vista salire su di un treno, direzione Italia. Così, intenti a seguirla, abbiamo scoperto che la nostra nonnina ha scelto di andare a Sud. Molto a Sud. E poiché il mestiere ci porta a essere poco virtuosi in fatto di discrezione, abbiamo, ancora una volta sbirciato sulla pagina del diario che l’ignara Elizabeth sta scrivendo, seduta al tavolino di un caffè nel territorio di Fasano, proprio di fronte al mare.
«È una bella e calda mattina di maggio. Mi trovo a Savelletri, un nome che pare quasi inventato, minuscolo borgo marino di una regione che molti mi hanno descritto pittoresca, la Puglia. E le attese, infatti, sembrano non andar deluse. Dal finestrino del mio treno il paesaggio, dai colori fatati, è davvero unico, immense distese di ulivi da un lato e il mare dall’altro. Qui è tutto un profumo: dalle scogliere piene di erbe, alle accoglienti insenature, cui gli abitanti del posto hanno imposto un nome, come fossero persone a loro care: la Caletta e la Forcatella sono quelli più curiosi di cui mi sfugge il significato. In lontananza, andando più a sud, si vede un faro: Torre Canne, un altro borgo della città di Fasano che è anche stazione balneare. Credo che uno di questi giorni ne approfitterò per dare sollievo a queste mie povere ossa, la gente del luogo mi racconta di una sorgente dagli straordinari poteri curativi, “Acqua di Cristo”, la chiamano. Che nome curioso, no? Mentre ero qui seduta all’ombra di un gazebo ad ammirare una splendida piccola chiesetta immacolata, talmente tanto da far male agli occhi, mi si è avvicinato un tizio dalla faccia consumata dal sole, che ho scoperto, immediatamente, essere un pescatore. Peppino, ha detto di chiamarsi. L’uomo aveva in mano un enorme piatto rustico pieno di cose mai viste: di forma rotonda, arancioni all’interno con aculei nerastri che sputavano ovunque dal bordo. Ho naturalmente chiesto cosa fossero e costui, in un italiano più faticoso da pronunciare per lui che da comprendere per me, mi ha spiegato che si trattavano di frutti di mare, chiamati ricci! Puoi ben immaginare, caro diario, come, dopo esser rimasta a bocca aperta in estatica ammirazione, mi abbia preso l’insaziabile sete di sapere. Così mi sono documentata e ho scoperto che il Paracentrotus lividus, altrimenti detto riccio femmina di mare, appartiene alla classe delle echinoidee ed è molto comune nel Mediterraneo, oltre che nella zona atlantica che si estende dalla Scozia alle Canarie. Vive prevalentemente sui fondali rocciosi medio bassi ed è costituito da uno scheletro munito di lunghi aculei mobili e di piccole estroflessioni con ventose utili allo spostamento. Il colore può variare dal viola al verdastro fino al marrone. L’informazione che ricevuto è dunque vera: i ricci di mare sono commestibili e anche buonissimi.
Peppino mi ha confessato che «a Savelletri, ricci come quelli sono in pochi capaci di trovarli. Perché si tratta di ricci di scogli e non di fondali. E non sono neri come tutti gli altri, ma viola come le melanzane! Si nascondono nell’erba, alcune volte si fanno la casa nelle rocce, ma noi pescatori esperti sappiamo sempre dove stanno, spostiamo l’erba e li prendiamo». Con le mani? Gli ho chiesto sorpresa, immaginando quelle terribili spine. Peppino sorride come a sottolineare quanto sia sciocca la mi domanda e mi dice: «Da queste parti li peschiamo con la grambodd, vedete? – e mi mostra una specie di enorme forchetta di legno legata a un bastone – con questa raccogliamo i ricci più grossi e lasciamo quelli più piccoli, che devono ancora crescere». Oh my Queen! L’ingegno della gente semplice! E non è tutto, perché Peppino è in vena di svelare altri segreti. «Un trucco per distinguere i ricci femmina, ripieni di uova da quelli vuoti, me l’ha insegnato mio nonno: quello ‘gravido’ si nasconde e si copre con una conchiglia o un’alga. E proprio quelli si devono pescare, perché sono così pieni che il frutto se ne esce da fuori ed io mi bevo anche l’acqua che sta dentro, dicono che fa bene alla salute!». Credo di aver compreso che quindi quelle strisce arancioni così invitanti che mi farà assaggiare sono uova! E ancora, pare che da queste parti esiste il detto che i ricci si debbano mangiare durante i mesi che contengono la lettera R e sempre a multipli di cinquanta. Peppino, a tal proposito mi ha raccontato un aneddoto gustosissimo. La leggenda dei “mesi con la R”, sembra risalire a quando non esistevano i frigoriferi e dunque, per evitare spiacevoli problemi intestinali, se ne consigliava il consumo nei soli mesi invernali. Effettivamente i ricci (per una questione di riproduzione), sono quasi del tutto vuoti d’estate e pieni, invece, nel resto dell’anno, raggiungendo il culmine in primavera. La storia dei “cinquanta” e dei suoi multipli, resta dunque un detto popolare tutto fasanese.
A un tratto si avvicina a noi una donna bassa e in carne, anche lei piena di rughe ma dagli occhi celesti e gentili, che mugugna qualcosa all’uomo lasciandogli una cesta tra le mani. Non parla in italiano, perché non ho compreso nemmeno una parola. A sciogliere le mie perplessità è ancora una volta Peppino. Sua moglie, racconta, mi sta invitando a mangiare i ricci con il pane, facendo la così detta “scarpetta”. Caro diario, non si possono descrivere le sensazioni provate! Non vedo l’ora di scrivere alle mie amiche, rintanate nelle loro polverose sale da the, e sollecitarle a fare un giro lungo la costa tra Savelletri e Torre Canne, o lungo tutta la costa pugliese, a prenotare in una delle tante caratteristiche baracche in stile marinaro un tavolino con vista sul mare per gustare, magari su tovaglie di carta e in piatti di plastica, poco importa, queste prelibatezze di mare, accompagnandole con pane rigorosamente casereccio e dell’ottimo vino rigorosamente bianco. E mai con le posate! E poiché “il luogo condiziona il gusto”, sfiderei ognuna delle mie amiche a non rimanere tramortite dal sapore dei ricci mangiati a due passi dagli scogli».