DI Gianni Svaldi
C’è un tratto di ipocrisia tutta italiana, un riflesso condizionato del bigottismo travestito da decoro, che trasforma la realtà in eufemismo e la sofferenza in tabù. È quel riflesso che censura anche la poesia, le canzoni, i romanzi che riscrive la verità in nome di un malinteso rispetto.
Alice di Francesco De Gregori è una delle più belle della canzone italiana del Dopoguerra. Un romanzo in versi sulla vita, sulla confusione dei sentimenti, sull’assurdo che ci circonda. Eppure, anche a questa canzone è stato imposto un silenzio: una censura che la dice lunga sul clima culturale e religioso di Paese sospeso tra passato remoto e futuro.
C’è un verso di quel brano che nei concerti De Gregori canta nella sua forma autentica: “Il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna.” Ma nelle incisioni ufficiali il cancro sparisce. Il verso diventa: “Il mendicante arabo non ha niente nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna”.
Per non urtare. Per non turbare. Per non dire la parola proibita: cancro
Come se il cancro fosse una colpa, come rubare, truffare, usare violenza sui più deboli.
Il mendicante è un arabo – e questo basta già a renderlo invisibile agli occhi di molti. Gli è stato diagnosticato un cancro, probabilmente alla testa, e lo nasconde sotto un cappello. Ma non lo nega, non lo piange: lo accetta, ci convive, arriva persino a vederlo come un portafortuna. Una parabola tragica e dolcissima insieme sul non provare troppa pietà per se stessi, un capolavoro di umanità.
Ma questo no, non si può dire. Non si può cantare. Il cancro, come la morte, come il dolore, va tenuto fuori dallo spartito, lontano dalle orecchie “sensibili” di una società che preferisce la bugia alla verità.
Censurare quel verso non è una scelta tecnica. È un atto politico. Un gesto di resa culturale. Un segno di quanto ancora ci spaventi chiamare le cose col loro nome.
