DI Ilenia di Summa
Questa non è proprio una buona notizia. E a dirlo non sono i soliti detrattori dell’evoluzione tecnologica. A pubblicare dati decisamente allarmanti sono studiosi e ricercatori: negli ultimi decenni il QI medio è diminuito rispetto a quello delle generazioni precedenti.
Non è semplice risalire alle cause, ma uno studio condotto in Norvegia da due ricercatori del Centro Ragnar Frisch fornisce una serie di dati su cui riflettere. Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg, infatti, hanno analizzato i test di intelligenza somministrati ad oltre 730 mila reclute norvegesi durante la visita militare, in un lasso di tempo di circa 40 anni, fra il 1970 e il 2009. Il QI dei ragazzi ha evidenziato un calo di 7 punti da una generazione all’altra, invertendo quello che era stato un trend conosciuto come “effetto Flynn”, che aveva caratterizzato il secolo scorso, fino al 1970.
I ricercatori, nell’intento di scoprire le cause, hanno ripercorso le tappe dello studio condotto da James Robert Flynn, psicologo neozelandese, il quale aveva riscontrato un progressivo incremento del quoziente intellettivo in tutto il mondo. Fra le possibili spiegazioni del fenomeno fu dato risalto ai miglioramenti sociali ed economici avvenuti nel secondo dopoguerra, in relazione alla salute, all’alimentazione e all’educazione, grazie anche alla crescita dei tassi di alfabetizzazione.
Cosa ha determinato, negli ultimi decenni, la perdita di punti, giungendo ad una sorta di “Flynn negativo”? Secondo i ricercatori norvegesi, la causa più probabile è legata a fattori ambientali esterni: sistemi scolastici peggiorati, valori educativi in declino e diffusione capillare di media e tecnologia informatica. Ad una conclusione analoga sono giunti altri ricercatori: lo psichiatra e neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer, nel 2012 aveva pubblicato il bestseller “Demenza Digitale”, nel quale affrontava le conseguenze provocate da un’eccessiva presenza di tablet, computer, smartphone, responsabili di deteriorare le capacità intellettive; dello stesso avviso, il neuro-scienziato francese Michel Desmurget, che nel 2019 ha pubblicato “Il cretino digitale”.
D’altra parte, lo stesso Flynn, a seguito di uno studio del 2016 su un campione di adolescenti inglesi e norvegesi, afferma che “Il progresso in QI registrato nel ventesimo secolo si è indebolito”. Sembra, insomma, che l’intelligenza umana, intesa come capacità di elaborare modelli, esercitare il pensiero astratto, capire gli altri e la realtà che ci circonda, sia inesorabilmente in declino. Gli psicologi dell’età evolutiva attribuiscono alla pervasività della tecnologia i deficit di attenzione e di concentrazione riscontrati nei “nativi digitali”.
E c’è di più: l’overdose di immagini, suoni, messaggi e informazioni a cui siamo sottoposti innesca sensazioni di stress, che a loro volta, generano un impoverimento delle capacità di giudizio e di decisione. Il ritmo frenetico della quotidianità mal si concilia con il bisogno di ragionare lentamente sulla natura dei problemi, pertanto, quando decidiamo di delegare ad app informatiche un compito intellettualmente impegnativo, rinunciamo, di fatto, a uno stimolo attivo nelle aree della memoria, del controllo emozionale e dell’elaborazione del pensiero astratto. Uno studio dell’University College of London ha evidenziato, ad esempio, che nei tassisti londinesi, privi di mappe o navigatori GPS a loro disposizione, l’ippocampo è maggiormente sviluppato rispetto alla media.
La tecnologia rappresenta una risorsa irrinunciabile per lo sviluppo della società e per gli innegabili effetti positivi che ne conseguono, tuttavia, è altrettanto irrinunciabile una riflessione critica sulle conseguenze ad essa connesse, prima fra tutte la riduzione delle preziose facoltà del nostro cervello.