Il nome originario del comune era Salvia di Lucania. Fu mutato in Savoia dagli stessi cittadini dopo l’attentato del 1878 alla vita di Umberto I ad opera dell’anarchico Giovanni Passannante. Per anni il comitato “pro-Salvia” si è battuto per il ritorno al toponimo originario, con grande disappunto dell’Unione Monarchica Italiana. Una vicenda tutta italiana lunga 140 anni con al centro un paesino che vale la pena di andare a visitare
SAVOIA DI LUCANIA – Perché un paese della Basilicata più profonda e interna si chiama “Savoia”? Storia lunga. Storia che arriva fino ad oggi. I fatti. Giovanni Passannante, di qui nativo, anarchico, nel 1878, attentò alla vita di Umberto I. Il piccolo centro pensò di scusarsi mutando il vecchio nome di Salvia di Lucania in Savoia. Il re non morì e non fece uccidere il Passannante, recludendolo a vita in una cella piccolissima, sotto il livello del mare, all’Isola d’Elba. Passannante, in quelle condizioni, non poteva che impazzire.
Negli anni scorsi, dopo il ritorno dei suoi resti mortali nel suo paese, si è proposto il ritorno all’antico nome. Un percorso ora interrotto. Vediamo perché. Intanto, i dettagli. Il luogo. Siamo in una terra antica, sintomo della Lucania più grande e storica. Una tragica vicenda, quella di Passannante, raccontata da più interventi di ricerca storiografica, letteraria, cinematografica, teatrale. Una storia che, nel tempo, ha agitato le coscienze e mosso il popolo. Siamo, come detto, nel 1878. Morto Vittorio Emanuele II, è da poco re Umberto I, così da poco che gira le principali città italiane per farsi conoscere. Il 17 novembre la coppia reale, con il primo ministro Benedetto Cairoli, è a Napoli. A Napoli c’è anche Passannante. Attivista dal forte afflato anarchico e internazionalista, mazziniano e garibaldino, il lucano era già stato in carcere a Salerno nel 1870 a causa di sollevazione popolare. Napoli, sfila il corteo regale. Passannante approfitta di un momento in cui la carrozza è preda dell’entusiasmo popolare e s’intrufola, armato di un piccolo coltello di cui era entrato in possesso barattando il suo cappotto. Il re è colpito al braccio, la regina urla e interviene anche Cairoli a difendere il monarca, restando ferito. Il tutto dura pochissimi secondi. Passannante è subito arrestato e malmenato, subirà sevizie. L’opinione pubblica, anche socialista, si divise. Se Pascoli pare scrisse un’ode al nostro, Garibaldi ebbe atteggiamento ambiguo. “La maggioranza che si rassegna è colpevole. La minoranza ha il diritto di richiamarla”, disse il figlio di Salvia davanti al giudice al processo.
Risultato? L’anarchico fu condannato a morte ma poi, con regio decreto del 29 marzo 1879, Umberto I gli concesse la grazia, commutando la pena in ergastolo. Atto, si disse, di magnanimità. Si parlò a lungo, con diverse perizie, della sua supposta follia. Addirittura anche la sua famiglia fu giudicata pazza per intero, tramite riscontri assai poco oggettivi e scientificamente validi. Anche Cesare Lombroso volle dire la sua sulla non comprovata follia del tentato omicida, tra l’altro senza nemmeno visitarlo. Un’indagine, come si vede, tutta politica e di aperta partigianeria savoiarda. Sta di fatto, intanto, che le condizioni in cui fu lasciato a marcire Passannante in carcere destarono subito vasta eco e indignazione tra politici, uomini di cultura e giornalisti. Passannante stesso avrebbe preferito morire, atto più utile per lui alla causa rivoluzionaria. Fu proprio una giornalista, Anna Maria Mozzoni, a raggiungere l’incredibile cella di Passannante, accompagnata dal parlamentare Agostino Bertani, dell’estrema sinistra storica. Essi notarono l’indecente condizione in cui l’anarchico versava nella Torre della Linguella di Portoferraio, provincia di Livorno, Isola d’Elba: appunto sotto il livello del mare, con acqua filtrante, umidità agli eccessi, un corpo ormai irriconoscibile. Da qui, molte voci levate contro questo trionfo all’inumano.
Anche le canzoni sociali e popolari di protesta, lucane e non, si interessarono al caso Passannante. I marinai raccontavano di sentire delle urla dalla torre, si disse che spesso si cibasse dei propri escrementi.
Un tugurio piccolissimo, una catena cui era attaccato del peso di diciotto chili, completo isolamento. Notizie che traiamo soprattutto da un interessante libro a firma di Giuseppe Galzerano, edito nel 2004 (utili anche le ricerche di Rita Poggioli e, prima ancora, Giuseppe Porcaro). In quelle condizioni Passannante avrebbe dovuto rimanere per poco tempo: ci rimase dieci anni. La malattia mentale, in quello stato, si sviluppò per davvero: così l’attentatore, nel 1889, fu trasferito al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove morì nel 1910, a sessant’anni, solitario, cieco, mai pentito, visitato da pochissime persone, con la sola possibilità di coltivare un piccolo orticello. Decapitato il cadavere, il suo cervello fu inviato alla Scuola Superiore di Polizia di Roma, mentre i resti, nel 1936, furono portati al Museo Criminologico del Ministero della Giustizia. Passannante fu tumulato solo nel 2007 a Salvia-Savoia, città natale. Quante lotte per averlo in Lucania: d’obbligo citare l’impegno dell’attore e regista Ulderico Pesce, autore dello spettacolo teatrale “L’innaffiatore del cervello di Passannante”, opera che ha portato in giro dappertutto per far conoscere ai più la storia di questa brutale segregazione. C’è stato anche un film, “Passannante”, del 2011, con Fabio Troiano e lo stesso Pesce, per la regia di Sergio Colabona. Un lavoro che ha riscosso gran successo di critica. Pesce ha poi organizzato una ormai “storica” raccolta firme che raggiunse notissimi intellettuali italiani. L’obiettivo era proprio il ritorno a casa della salma. Diversi, nel corso degli anni, anche i politici interessati al caso. Una battaglia di civiltà e così, dopo alcune manifestazioni -si pensi a “Liberiamo Passannante!”, evento tenutosi al Palladium di Roma nel marzo del 2007-, nel maggio dello stesso anno le spoglie dell’anarchico raggiunsero il centro da cui, ben più di un secolo prima, era partito per attentare alla vita di Umberto I. Il tutto accadde non senza polemiche: si era pensato ad un vero e proprio rito funebre per lui e la sua anima, ma all’improvviso, per ragioni di “ordine pubblico”, fu sepolto in silenzio. Proteste ancora da parte di cittadini e dello stesso Pesce. Passannante meritava un pubblico saluto. Ci furono anche reazioni di parte monarchica e nel paese addirittura nacque anche un comitato “pro Savoia”, critico verso l’agire dell’avo. La richiesta del comitato a favore di Passannante fu accolta; ci fu così una messa in suffragio del mai dimenticato salviano. Ai primi del 2012, la sua tomba fu profanata da squallida e ignota mano. Un gesto unanimemente condannato. Grande questione aperta, poi, quella del ritorno all’antico nome del paese.
Prendiamo posizione. Con forza sosteniamo, allora, il ritorno dell’amena località al nome semplicemente più rispettoso della propria storia. Lo si riconosca, dopo tanto tempo: cambiarlo fu atto di eccessiva soggezione verso i Savoia. Persino il re ammise di fronte al contrito sindaco dell’epoca che “gli assassini non hanno patria”. I lucani di oggi sappiano riconquistare uno spirito patriottico, realmente identitario e comunitario e il toponimo Savoia sia presto trasformato in Salvia. Questo il nostro augurio, certi che la cosa non sia facile. Non solo: se ne parla da tanto tempo (dal 1948), questione veramente annosa. Ma come sempre, nei momenti in cui le cose si placano, è meglio agire con concretezza. Abbiamo ascoltato il sindaco della cittadina, Rosina Ricciardi. “Ci sarebbero numerose incombenze di tipo oneroso a livello finanziario -ci ha detto-, dal cambiamento della toponomastica a tutta una serie di modifiche da fare. I Comuni hanno pochissima disponibilità e saremmo soli. Purtroppo, al momento non posso prevedere impegni”. Eppure, è nella storia che riconosceremo il nostro futuro. Passannante e la sua vicenda sono ricordati in queste bellissime lande anche in un buon museo di storia locale. Ma non musealizziamo la storia, rendiamola semmai reale pretesto d’innesto civico. E allora: che Savoia torni Salvia. Salviani, del resto, sono ancora oggi detti i suoi abitanti. Forse non accadrà per ora, forse mai. Il punto è rimediare ad un’ingiustizia. Se accadrà sarà bello e giusto; non dovesse accadere, continuerà purtroppo a perpetuarsi un’iniquità. I paesi oggi vivono in gran parte di abbandoni e l’abbandono è ancor più feroce se coinvolge anche le radici. Assolutamente innocenti, quelle.