In questo agosto 2018 (l'8 per la precisione) ricorre il ventisettesimo anniversario dell’arrivo sulle coste Italiane della nave “Vlora”. L'8 agosto, l'Italia diveniva di colpo un porto in cui arrivare e non solo da cui partire per cercare lavoro e fortuna. Cambiamento sociale avvenuto all'improvviso. Che colse impreparati tutti. Straordinariamente a reagire meglio, però, furono i cittadini di Bari e Brindisi. Prima del Governo e dello Stato, corsero in aiuto ai migranti. Altri tempi, che oggi sembrano ancora più lontani.
“Invasione”, fu i titolo di apertura della Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto del 91. Il direttore dell’epoca, Giuseppe Gorjux, non si capacitava di come la situazione fosse sfuggita di mano al governo italiano. In un editoriale del 9 marzo del 91, a seguito degli sbarchi avvenuti nei giorni precedente sulle coste pugliesi, attacca frontalmente il governo ponendo alcune domande: “Ma è possibile che nessuno ne sapesse nulla? Si fa presto a dire rimandiamoli a casa. Come? A cannonate con i gas di Saddam? Impediremo altri sbarchi… Come con i siluri?” La storia si ripete.
Il 5 marzo del novantuno, tra i 1500 albanesi sbarcati in Puglia vi era Arjan Ajazi, un ragazzino diciasettenne che sognava la libertà ed una vita migliore. Oggi Arjan ha 44 anni e vive in provincia di Bari con Cinzia, sua moglie e i loro due figli. La sua passione per lo sport si è trasformata nel luglio del 2008 in una laurea in Scienze Motorie. Vivo è il ricordo di quei giorni ed intatto è rimasto l’amore per l’Albania.
Tanti sono i migranti che in questi anni continuano ad arrivare sulle nostre coste via mare. Sembrerebbe che nulla è cambiato
Non è vero che non è cambiato nulla, in questo trentennio è cambiata la nostra società, essa ha subito profonde mutazioni. Non ho abbandonato il mio paese, ho deciso di scappare dall’Albania per conquistare la libertà. Non è stata una scelta semplice, anzi è stata una scelta molto sofferta, ma era il prezzo da pagare per sentirmi libero: libero di parlare, di esprimere quello che pensavo senza il timore di ripercussioni su di me e sulla mia famiglia. Il regime comunista ci aveva privati di ogni forma di libertà, mi riferisco anche al semplice modo di parlare liberamente con gli amici a scuola e ovunque. Si viveva sempre con il terrore di dire qualcosa in più o di essere frainteso.
I primi giorni in Italia. Quali sono i suoi ricordi?
Sono arrivato a Brindisi il 5 marzo 1991 con una carretta del mare chiamata “Panama”, ero solo e minorenne, i ricordi sono tanti, alcuni tristi, altri emozionanti, ma in particolare ricordo il sorriso e la disponibilità delle persone comuni ad accoglierci, di tanti italiani volontari impegnati ad aiutarci senza chiedere nulla in cambio; persone comuni, impiegati, volontari, uomini delle forze dell’ordine; un giorno, credo forse il secondo giorno che stavo in Italia, mentre camminavo per strada senza meta, una signora anziana aprì la finestra della propria casa, una di quelle case semplicissime a pian terreno fatte di tufo e mi chiamò: “Giovanotto!” io mi girai, la guardai, non comprendevo cosa volesse, mi fece segno con la mano e mi avvicinai: mi regalò un maglione, mi sorrise e mi chiese di indossarlo. Io la ringraziai chinando la testa. La signora anziana mi salutò con la mano io mi allontanai. Qualche giorno dopo un insegnate di scuola media mi invitò a casa sua per farmi conosce la propria famiglia e cenare insieme a loro. La gioia fu immensa, mi sentivo libero ma soprattutto accolto. Ne seguirono tanti altri incontri. Certamente sia l’anziana signora, sia l’insegnate di lingua inglese non erano dei benestanti ma aveva l’accoglienza nel cuore.
Quale è stato il momento in cui hai realizzato che la sua vita era cambiata?
Io credo che tale sensazione l’ho avuta da subito, già nei primi giorni in quanto ho cominciato a studiare la lingua italiana, impegnarmi nel sociale aiutando gli anziani e i più deboli attraverso i servizi sociali, ho ripreso a studiare frequentando la scuola superiore. Non avevo nulla, solo una vecchia bici ma ero felice, perché sentivo di aver conquistato quel diritto irrinunciabile “la libertà”.
Che legami ha, oggi, con l’Albania?
L’Albania è il paese dove io sono nato, dove ho le mie origini, l’Italia è il paese dove sono cresciuto, dove ho finito gli studi dove lavoro e sto costruendo il mio futuro e quello dei miei figli. Amo il paese dove sono nato e amo il paese dove sono cresciuto alla pari senza alcuna differenza (leggi il reportage sulla nuova Albania e su Radio Tirana ndr).
Cosa pensa della chiusura dei porti e dell’approccio del nuovo governo rispetto al tema immigrazione?
Rispondendo alla prima domanda ho detto che è la nostra società è cambiata. La crisi economica degli ultimi dieci anni ha distrutto il ceto medio, quel ceto medio che era il fiore all’occhiello per il nostro paese. Ha impoverito milioni di famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese, ha fatto perdere il sorriso a milioni di persone. Se una comunità vive un disagio economico, è molto meno disponibile ad essere accanto a chi ha bisogno di aiuto. Oggi mi domando quanti di noi oggi inviterebbero un immigrato in casa propria? Sicuramente ci sono, ma sempre molto meno. Non credo che potremmo esserne fieri. Temo che le prossime generazioni giudicheranno negativamente il comportamento dell’odierna società. Il fenomeno dell’immigrazione è un fenomeno globale e come tale ha bisogno di una risposta globale e quindi Europea, costruttiva e lungimirante.
Non credo che chiudendo i porti ci saranno meno immigrati, è pura propaganda per le prossime elezioni. I trafficanti albanesi degli esseri umani degli anni novanta non giungevano nei porti ma lungo le coste e clandestinamente. Tale fenomeno è stato sconfitto attraverso la libera e regolare circolazione dei cittadini muniti di passaporto e di visto Schengen.