Preferisce il farmaco originale o il farmaco generico? La domanda che il farmacista pone ai clienti sembra semplice, invece apre un modo governato dalla scienza, ma anche dai profitti enormi. In media - secondo recenti stime - in Italia nel 78% dei casi preferiamo il farmaco brandizzato, percentuale che però in Europa scende drasticamente al 46% (in Germania è solo il 30%) e negli Stati Uniti addirittura al 20% (dati relativi alle confezioni). Perché nel nostro Paese siamo così diffidenti verso i farmaci generici? Perché proprio noi, che campioni del mondo di risparmio sanitario non siamo, non siamo inclini a risparmiare spese sanitarie semplicemente acquistando questa tipologia di farmaci? È interessante considerare anche la suddivisione interna per macro aree Nord-Centro-Sud. Infatti vediamo che la preferenza per i farmaci originali si concentra soprattutto al Sud Italia con il 79,5%; nel Centro scende al 73,2% e al Nord si abbassa ancora arrivando al 63,5% (sempre per unità vendute).
Ripercorriamo la storia dei farmaci generici. Nel 1995 viene introdotto in Italia il concetto di “medicinale generico” (art. 130, c0mma 3 della L. 549/’95), ovvero un medicinale definito come "essenzialmente simile" a un prodotto il cui brevetto è scaduto, del quale replica la formulazione e quindi ne riproduce la stessa composizione qualitativa e quantitativa di principio attivo, e anche la forma farmaceutica.
L’iniziale termine "generico", si dimostrò infelice in quanto venne percepito dal pubblico come un farmaco simile, ma non esattamente uguale a quelli indicati e fino ad allora usati per la stessa patologia. E così dieci anni dopo, con la L. 149 del 26 luglio 2005, il termine venne sostituito con l’attuale equivalente, perché si ritenne che il primo potesse indurre gli utenti a pensare che si trattasse di farmaci meno efficaci.
Per medicinale equivalente, quindi, s’intende quel farmaco che rilascia, con uguali modalità, frequenza e concentrazione, lo stesso principio attivo di quello “di marca”, con un brevetto ormai scaduto. In altre parole, il farmaco equivalente non differisce affatto per efficacia, potenza, effetti collaterali, sicurezza, indicazioni e controindicazioni. I medicinali equivalenti sono facilmente riconoscibili, perché sono commercializzati con la denominazione comune del principio attivo (per es. Paracetamolo o Mimesulide) seguito dal nome del produttore (Tizio o Caio) e devono avere un prezzo inferiore di almeno il 20% rispetto a quello del prodotto di marca (per es. Tachipirina o Aulin).
L’introduzione e l’incentivo all’utilizzo degli equivalenti era finalizzata proprio a ridurre o quanto meno a contenere il prezzo dei medicinali il cui brevetto è scaduto, facendo in questo modo risparmiare tutti, sia il SSN che i cittadini, ma al tempo stesso mantenendo gli stessi livelli tanto di benefici, quanto di rischi terapeutici relativi all’utilizzo di quel farmaco.
La differenza di costo non deve però indurre a pensare a una qualità inferiore. Infatti le ragioni sono di natura puramente industriale e commerciale. Gli equivalenti costano meno perché utilizzano molecole già studiate e testate clinicamente e poi commercializzati con nomi di fantasia, con brand, il cui brevetto è semplicemente scaduto. Quindi la mancanza di questi costi di ricerca e di lancio commerciale consente un prezzo inferiore.
Una causa molto importante della mancata diffusione in Italia dei farmaci equivalenti rispetto al resto dell’Europa è la nostra legislazione sui brevetti farmaceutici. La brevettabilità in questo settore risale al DPR 338/1979. Prima di allora le case farmaceutiche potevano copiare o imitare (senza garanzie di equivalenza terapeutica e quindi a discapito quindi degli utilizzatori) pressoché impunemente le formulazioni di farmaci commercializzati da altri. In seguito la legge 349/91 ha istituito il CPC (Certificato Complementare di Protezione) poi abrogato dal Regolamento CEE 1768/92 istitutivo del SPC (Supplementary Protection Certificate). Queste due norme non comportavano una differenza meramente terminologica, ma assolutamente sostanziale. Infatti la durata massima prevista per i brevetti era molto differente: con il CCP italiani si arrivava a 18 anni, mentre con il SPC europeo erano solo 5. In questa finestra temporale 1991-’93 (entrata in vigore del SPC) la gran parte dei quasi 400 principi attivi presenti sul mercato italiano otteneva il CCP e quindi una durata del brevetto quasi ventennale, a differenza di quanto accadeva nel resto d’Europa e anche nel mondo. Inoltre, nonostante la stessa legge del ’91 lo prevedesse, le case farmaceutiche non hanno praticamente mai pubblicato il bollettino dei farmaci per cui era stato ottenuto il CCP con le relative molecole e durate. Queste circostanze ha sicuramente sfavorito lo sviluppo dei generici-equivalenti avvantaggiando i produttori titolari di brevetti.
Secondo l'Associazione nazionale industrie farmaci generici e biosimilari (Assogenerici), a 24 anni dall’introduzione dei farmaci generici e a 14 dalla ridenominazione in equivalenti siamo ancora indietro rispetto a tutto il resto del mondo. Nonostante un incremento dei consumi di equivalenti nel 1° semestre 2018 del 3,9% in unità vendute e un correlativo calo della spesa rimborsata dal SSN del 4,3%, nel primo semestre del 2018 ammonta a 561 milioni di euro il totale del differenziale di prezzo pagato dai cittadini per ottenere farmaci a brevetto scaduto invece del generico equivalente (Ciò con riguardo al mercato delle farmacie, mentre in quello ospedaliero l’incidenza dei farmaci equivalenti su quelli a brevetto scaduto è del 26,1% in volumi).
Abbiamo speso nel 2018 - secondo lo studio - oltre un miliardo di euro in più per acquistare prodotti “di marca”, pur avendo la possibilità di acquistarne altri assolutamente equivalenti. Su questi incrementi ha inciso la scadenza di alcuni brevetti avutasi nel 2017, così c’è da aspettarsene di ulteriori, dato che entro il 2023 andranno in scadenza di brevetto farmaci che determinano una spesa di 3,1 miliardi di euro l’anno; nel triennio 2018 – 2020, con l’arrivo dei farmaci equivalenti di diverse molecole in scadenza di brevetto, si raggiungeranno risparmi cumulati superiori a 800 milioni di euro.
A fronte di queste prospettive di risparmio c’è ancora da chiedersi perché gli italiani preferiscano i prodotti brandizzati.
Tante le tesi e le campagne a favore della diffusione dei farmaci equivalenti. In una recente intervista a "Starbene" Francesco Rossi professore di farmacologia alla Seconda Università di Napoli afferma che «Chi sostiene che Aulin e Nimesulide non sono la stessa cosa dice una sciocchezza».
Per il dottor Alessandro Mugelli, presidente della SIF, la Società italiana di farmacologia, durante una terapia subentrano altri fattori non chimici che riguardano la risposta al farmaco da parte di un determinato paziente. Per esempio, un anziano abituato ad assumere un certo farmaco, una certa pillola di forma e colore ben precisi, si sente rassicurato. Cambiando quelle caratteristiche esteriori può cambiare la resa della terapia. Quindi, come spiega il presidente di SIF, potrebbe esserci un effetto PLACEBO dovuto al prolungato utilizzo esclusivo nel tempo di certi farmaci sotto brevetto. Un lungo incedere ripetitivo che ha sedimentato abitudini e rafforzato convinzioni in larghe fasce della popolazione.
Si parla anche di effetto NOCEBO. Per Achille Patrizio Caputi, ordinario di Farmacologia, all'Università di Messina, in Italia siamo convinti che se un farmaco costa di meno, vale anche di meno di uno griffato che costa di più, per cui un paziente che si vede proporre un farmaco con un nome strano che costa solo il 20% in meno penserà che non funzioni bene come quello griffato che ha già usato tante volte. Per pochi euro, perché cambiare? Queste gocce di mancato risparmio del singolo vanno così a riempire un mare di spesa ulteriore che potremmo benissimo risparmiarci e utilizzare per la ricerca e il miglioramento del SSN.