Persa l’aria da garage, i coworking sono luoghi di lavoro ma anche incubatori di sviluppo. Per funzionare però devono piacere e avere i ritmi di chi li frequenta. E le nuove imprese italiane crescono senza orari di lavoro, la possibilità di farsi una doccia e tra battaglie fra robot e droni ballerini
MILANO – La prima volta che sono entrata in uno spazio di coworking (o “cowo”), qualche anno fa, mi sembrava di essere in un garage. Un garage figo, ma pur sempre un garage. Ho pensato che forse voleva evocare i famosi garage in cui erano stati concepite icone come Google, Amazon, Apple…
Poi i cowo sono diventati sempre più accoglienti, più curati nell’arredo e nei dettagli, più orientati a favorire il networking e la formazione.
La mia passione per il coworking ha trovato il suo culmine un paio di settimane fa, quando sono entrata nel Talent Garden Calabiana di Milano. E’ stato amore a prima vista. Forse perché è stato progettato Carlo Ratti, architetto e professore al Mit di Boston? O sarà merito delle piantine, degli arredi minimalisti stile Ikea, del giardino con tavoli e panche ricavati da pallet assemblati creativamente, delle aule con una intera parete trasformata in lavagna per prendere appunti durante il brain storming, delle scritte “innovation” e “networking” che campeggiano ovunque?
Talent Garden è il tipico coworking “verticale”, ossia aperto ai professionisti e alla startup che fanno dell’innovazione digitale la propria bandiera. La storia di questo cowo è un po’ lo specchio dei tempi: Davide Dattoli, un enfant prodige per gli standard italiani, fonda Talent Garden 4 anni fa, quando aveva solo 20 anni. Ma prima di imbarcarsi in questa avventura aveva già creato la società di social media marketing Viral Farm e lavorato alle strategie digitali di Condé Nast. Oggi fa parte del board dell’incubatore Digital Magics.
A novembre dell’anno scorso ha fatto il grande salto: un aumento di capitale da ben 12 milioni di euro coinvolgendo 500 Startups, uno dei maggiori incubatori al mondo basato a San Francisco, ed Endeavor Catalyst.
Oggi Talent Garden conta 16 campus in Europa, una community di 1.500 professionisti e più di 300 eventi che hanno coinvolto oltre 35 mila persone: la più grande rete europea di spazi di coworking dedicati all’innovazione digitale. “Siamo già il terzo player a livello mondiale per numero di campus e vogliamo realizzare il nostro sogno di connettere i talenti più innovativi e brillanti, non solo europei” dice Dattoli.
Tipi da “cowo”
Al TAG, così come in qualunque cowo, non si ci va solo per lavorare, ma soprattutto per ampliare il proprio network. Io ci sono capitata il 14 luglio per partecipare al TAGParty: 17 ore – dalle 9 del mattino fino alle 2 di notte! – in cui sperimentare i passatempi che piacciono tanto a nerd e millennials: battaglie fra robot, droni ballerini che improvvisano una danza tecnologica, maratone di videogame, workshop su user experience e user interface, realtà aumentata e virtuale… Non solo divertimento, ma anche lavoro. Il networking, dicevamo. Al TAGParty ho conosciuto tanta gente saltando da un workshop sul growth hacking a uno sui big data. Una fra tutte, Beatrice Vaccaro, che mi è sembrata decisamente la persona giusta nel posto giusto. E’ l’emblema dello startupper, non a caso sul suo profilo LinkedIn si definisce “serial entrepreneur” (imprenditrice seriale). Ventidue anni, tra i primi 38 studenti a laurearsi nel maggio 2017, al World Bachelor in Business, il programma ideato dall’Università Bocconi assieme alla University of Southern California e Hong Kong University of Science and Technology. Ha già fondato due startup basate su e-commerce. La prima legata al fashion, già venduta. La seconda in fase di lancio, focalizzata sul pet food.
Identikit dei coworker
Negli ultimi 10 anni il coworking è diventato uno stile di vita. I coworker considerano il lavorare lì (anziché a casa o in un ufficio tradizionale) come uno dei tanti strumenti per far crescere la propria professione o addirittura la propria società. Merito dell’ambiente stimolante che caratterizza questi luoghi.
Qual è l’identikit del coworker? Dalla ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano emerge che la maggioranza dei frequentatori più assidui (96%) sono professionisti, free lance, artigiani, quasi sempre a partita Iva.
Alcuni sono lavoratori “nomadi”, che amano però avere un punto fisso un paio di giorni a settimana. Altri ci vanno tutti i giorni. Sicuramente vogliono poter contare su servizi immancabili: wifi e postazioni Internet, uso di stampante e fotocopiatrice sono la base, a cui a volte si aggiunge la possibilità di usufruire di sale riunioni e sale eventi, partecipare a seminari e corsi di formazione.
Coworking in Italia e nel mondo
L’ultima mappatura dei coworking italiani risale all’aprile del 2016. Allora registrava l’esistenza di circa 350 spazi di coworking. Le città con una maggiore densità erano Milano, Roma, Torino, Firenze e Venezia. I due gruppi maggiori (Copernico guidata da Pietro Martani e Talent Garden di Davide Dattoli) affiliavano rispettivamente 3.600 e 1.500 coworker.
E nel mondo? La Global Coworking Survey 2017 parla di circa 13.800 spazi di coworking in tutto il mondo, che raccolgono oltre un milione di coworker. Londra è la prima città in Europa per numero di spazi, seguita da Berlino. La ricerca dell’anno precedente (Global Coworking Survey 2016) offre però maggiori informazioni sulle abitudini degli user (il 78 % dei coworker preferisce lavorare in un open-space) e delle sedi. Circa la metà delle strutture di coworking mappate erano inutilizzate da almeno sei mesi prima di essere convertite, e il 42% risaliva ad almeno 50 anni fa, segno che il coworking porta con sé un recupero di spazi urbani “abbandonati”.
Come ci insegnano i colossi della sharing economy (Airb&b non possiede hotel, Blabla car non possiede automobili, Gnammo non possiede ristoranti), l’82% dei fornitori di coworking non è proprietario dei locali adibiti a questo e ha un contratto di locazione della durata media di 52 mesi.
E per adattarsi alle esigenze dei lavoratori, le sedi sono flessibili: 1 spazio di coworking su 4 si è trasferito altrove almeno una volta dal lancio dell’attività.
Una nuova cultura del lavoro
Non c’è dubbio, il coworking piace anche perché è coerente con un approccio al lavoro più agile, più smart, più orientato allo scambio e alla relazione.
Gli open space possono anche avere anche degli svantaggi, come ha dimostrato l’esperienza di aziende passate da una situazione di decine di scrivanie disposte in file ordinate in spazi enormi, alla creazione di “isole” e panelli semidivisori in grado di garantire un minimo di privacy e soprattutto di attutire i rumori.
Ma i coworker hanno un altro punto di vista. Sempre dalla Global Coworking Survey emerge che il 70% dei coworker intervistati (contro il 60 % dell’ultimo sondaggio) pensa che gli spazi di coworking con più postazioni diano luogo a maggiori connessioni, piuttosto che all’anonimato.
Un altro indizio della coerenza fra stile di lavoro e stile di vita: la maggior parte dei coworking non ha solo la toilette, ha la doccia. Quindi si prende in considerazione l’ipotesi – sempre più diffusa per altro – che c’è chi preferisce lasciare a casa la macchina e recarsi al lavoro in bicicletta percorrendo anche lunghe distanze. Ecco che il cowo offre l’opportunità di rinfrescarsi prima di iniziare a lavorare.
Anche il tema della fiducia rientra nella cultura del lavoro promossa dal coworking, tipica dei nuovi modelli di business basati sulla condivisione dei servizi: oltre la metà dei partecipanti al sondaggio dichiara di fidarsi degli altri coworker (ad esempio lascerebbe il proprio cellulare sul tavolo senza paura di furti).
Io al TAGParty ho lasciato lo smartphone sulla scrivania e sono andata a godermi lo spettacolo dei droni danzanti: due ore dopo sono tornata ed era ancora lì.