Questa foto è stata scattata giovedì 27 ottobre 2016. Le persone in fila sono una parte dei 3.200 laureati rimasta lì ore per lasciare il proprio curriculum a un’azienda ed avere la speranza di essere ascoltati. Mentre leggete questo pezzo, molti di loro non sono già più italiani. Mentalmente hanno detto addio al Bel paese. Tempo di fare i bagagli, racimolare coraggio e qualche spicciolo da nonne e zie, e andranno a cercare fortuna in giro per il mondo. Come migranti legati al loro destino di eterna ricerca, punteranno in Germania, Svizzera, Usa, i più coraggiosi in Kuwait. Per alcuni di loro, soprattutto per i più vecchi, i 30enni, il Career Day di AlmaLaurea costituiva l’ultimo tentativo prima di andare via dall’Italia. Lo slogan dell’evento è “l’opportunità di conoscere e incontrare da vicino alcune tra le più importanti aziende leader del Paese”: come non lasciarsi tentare.
Sono arrivati da ogni angolo della Puglia. Altri sono giunti da fuori regione. Un gruppo di questi 3.200 inoccupati o disoccupati è partito la mattina prima dell’alba da 300 chilometri di distanza. In tasca, pochi soldi per carburante e parcheggio e un po’ di copie del curriculum. In un’altra nazione avrebbero già da anni un lavoro: uno di loro ha una laurea in ingegneria aerospaziale e master in energie rinnovabili, ha quasi 30 anni e non sa più dove chiedere. I partecipanti hanno una laurea, moltissimi un master. Pochi hanno altre esperienze lavorative. Ad attenderli giovedì mattina nel PalaFlorio di Bari, i responsabili delle risorse umane di 10 aziende. Loro dietro il banchetto e i laureati in fila, davanti al banchetto. Qui come altrove la fila viene prima di tutto: l’Italia di oggi assomiglia tanto all’Inghilterra Ottocentesca di Charles Dickens. Se nasci povero, rischi seriamente di morire povero: in Italia tutto è difficile, se non sei un figlio di papà ti tocca fare la fila con la ciotola in mano come Oliver Twist e chiedere: “Signore, posso avere un altro po’ di minestra”. O stai da una parte o dall’altra. Sulle teste dei responsabili del personale primeggiavano brillanti i loghi di aziende e multinazionali. Nomi altisonanti, a guardarli giovedì scorso sembravano immuni dalla crisi. Ma non è così: alcuni dei marchi presenti all’evento hanno dichiarato da tempo stati di crisi, ma le società come Giano bifronte hanno una doppia faccia, piangono miseria coi Governi per ottenere aiuti e ostentano sicurezza nei confronti di consumatori e concorrenza. Riesco ad incontrare una giovane partecipante la sera, prima che prenda il treno dalla stazione di Bari, 26 anni e una laurea da 110 e lode in tasca che mi racconta la giornata: «Sono partita da casa alle 8 e arrivata verso le 11 dopo essermi iscritta online alla giornata. Funzionava così, si aspettava in piedi in fila per ore il proprio turno, poi si lasciava il curriculum e chi era dietro il banchetto se ti andava bene ti faceva due domande e ti rispondeva “le faremo sapere”, oppure “mandi il curriculum via internet”». «Se ti andava male cerchiava con penna rossa il voto di laurea, l’età e la conoscenza dell’inglese” e ti salutava. Io sono riuscita a fare quattro colloqui in 8 ore da 100 secondi l’uno». «Alcuni sono stati sinceri, mi hanno detto: dottoressa non abbiamo posizioni aperte, ma ci fa piacere parlare con voi giovani» Unico conforto il caffè al bar a un euro. Basta fare due conti per capire che almeno al titolare del bar la giornata è andata bene.
Dal 2006 a oggi hanno fatto la valigia 39.410 italiani tra i 18 e i 34 anni, la meta preferita è stata la Germania (16.568). E’ uno dei dati emersi dal Rapporto “Italiani nel mondo 2016”, presentato a inizio ottobre dalla Fondazione Migrantes.
La disoccupazione creata da questa crisi è di lunga durata. Tra i partecipanti c’erano anche quarantenni e cinquantenni, vestiti giovanili per non farsi troppo notare. Anche loro con curriculum e poca speranza in mano. Tutti pagano i danni prodotti da una nazione che nel periodo delle vacche grasse tra stipendi e pensioni da nababbi ha brindato a champagne per decenni quando di fatto avrebbe dovuto riempire i calici di gazzosa. Quella che era in fila giovedì è la prima generazione di italiani che sta peggio dei loro padri. Giovani iper-qualificati, ai quali nessuno ha insegnato a intuire di che cosa ha bisogno chi offre lavoro. Ed è poco utile fare incontrare aziende e studenti in un palazzetto se chi offre e chi cerca parlano lingue diverse: sin quando i giovani saranno preparati solo utopisticamente al lavoro, per aspiranti e responsabili delle risorse umane gli appuntamenti come quello di giovedì saranno come andare allo zoo: entrambi avranno difronte esseri che affascinano, ma che hanno linguaggio e necessità che non si comprendono.