La premessa era stata molto chiara: gli organizzatori avevano dichiarato che questa edizione dei Giochi della XXXI Olimpiade a Rio de Janeiro sarebbe stata quella delle “minoranze e della diversità”. E chi ha potuto seguire i diciassette entusiasmanti giorni di sport, tra sudore, agonismo ed esaltazione, non è rimasto deluso. Sarà stata la “saudade”, così meravigliosamente descritta dalla canzone “Chega de saudade” composta dalla coppia di poeti sudamericani Jobim e Vinicius de Moraes: «Basta nostalgia, la realtà è che senza di te non c’è pace, non c’è bellezza, tutto è tristezza e malinconia»; saranno stati i panorami, belli da togliere il fiato, del ‘Corcovado’, di ‘Pan di Zucchero’, della ‘Praia di Cobacabana’, ‘Grumari’ o ‘de Ipanema’, o infine del caratteristico quartiere di ‘Santa Teresa’, ma quella inspiegabile “malinconia per qualcosa che non si è vissuto” o della “nostalgia del futuro” ha colpito proprio tutti.
A cominciare dagli atleti e dagli allenatori, che mai come in questa edizione (se ne sono contati oltre sessanta, contro la ventina di Londra 2012 e la decina di Pechino 2008), hanno scelto di “sair do armário”, di uscire fuori dall’armadio. Di fare coming out, insomma. Gay, lesbiche, trans e bisessuali. Per non parlare delle innumerevoli dichiarazioni d’amore e di matrimonio, anche etero, che sono piovute dai campi o dagli spalti, manco fossero medaglie. Non vi nascondiamo che da inguaribili romantici, qualche lacrimuccia l’abbiamo versata, che ci volete fare.
Come non commuoversi ad esempio, dopo aver assistito al disastro compiuto dal campione dei tuffi di Sua Maestà Elisabetta II, Tom Daley? Il giovane e talentuoso atleta dopo aver vinto la medaglia di bronzo nella piattaforma 10 m sincro maschile, e aver spazzato ogni record di punteggio nelle qualificazioni sempre dalla piattaforma 10 m, ma di singolo, la sua gara, ha sciupato tutto durante la semifinale, non riuscendo a entrare nei dodici finalisti e battersi per l’oro che era certamente alla sua portata. Ebbene, da sciogliere immediatamente anche il ghiaccio della Groenlandia, sono arrivati i twitter del suo compagno, il regista e sceneggiatore (premio oscar per “Milk”), Dustin Lance Black: per la vittoria un amorevole “Felice per te. Orgoglioso di te amore mio”; per la sconfitta un altrettanto dolcissimo messaggio: “Siamo tutti orgogliosi per quello che hai fatto qui a Rio. Combatteremo ancora un’altra volta! Forza!”. Comunque i due ragazzi convoleranno presto a nozze, com’era stato deciso prima dell’avventura olimpica. E questa è la medaglia più bella che il nostro Tom possa mai vincere.
E che dire della proposta di matrimonio durante la premiazione dei tuffi dal trampolino da 3 m individuale femminile? Mentre le tre vincitrici delle medaglie (tra cui la nostra Tania Cagnotto, splendido e storico bronzo), erano ferme a bordo vasca per le foto di rito, il campione di tuffi cinese Qin Kai si è avvicinato alla sua fidanzata He Zi (argento, ndr), e dopo averle sussurrato in diretta mondiale qualcosa all’orecchio, si è inginocchiato e le ha fatto la dichiarazione d’amore, con tanto di tradizionale anello e di una rosa rossa chiusa in una campana di vetro. Lei ha cominciato prima a piangere a dirotto e noi con lei, poi, tra il pubblico in delirio, gli ha detto sì. La meraviglia del gesto, lasciatecelo dire, è stato vedere che anche gli atleti cinesi hanno un’anima.
Dicevamo di una sfilza di dichiarazioni d’amore e proposte di matrimonio rigorosamente targate Lgbtq. Come quella dopo la premiazione del rugby a 7 femminile, quando la brasiliana Marjorie Enya, responsabile dei volontari del rugby proprio nello stesso stadio in cui si è disputata la partita finale, ha chiesto alla sua compagna Isadora Cerullo, detta Izzy, giocatrice della Selecao, di sposarla. Non avendo al momento una fede con sé, Enya ha legato una striscia di panno al dito di Izzy a simbolo del suo impegno. Palloncini a forma di cuore e baci con il pubblico impazzito. «Lei è l’amore della mia vita», ha dichiarato Enya. L’amore “vince” sempre.
O come quella che ha visto coinvolto il marciatore inglese Tom Bosworth, che, complice la spettacolare e romantica spiaggia di Copacabana si è inginocchiato davanti al suo compagno e gli ha donato l’anello. La scena è stata immortalata da una foto postata su Twitter dove l’atleta ha scritto: «Ha risposto “sì”». Bosworth era “uscito dall’armadio” solo un anno fa, confortato dalla solidarietà della famiglia e del suo gruppo sportivo. In marcia verso un futuro pieno d’amore.
E ancora, la simpatica proposta, che suona più come un ordine, ricevuta dalla cavallerizza britannica Charlotte Dujardin, che dopo aver conquistato la medaglia d’oro nel dressage individuale, ha visto il suo fidanzato tra il pubblico mostrarle un cartello con scritto: «adesso possiamo sposarci». Dopo la medaglia, l’anello.
E non è finita qui. Come non citare la dedica spontanea che la nuotatrice italiana Rachele Bruni ha fatto alla sua compagna Diletta dopo aver conquistato l’argento nella 10 km di nuoto in acqua libera. La Bruni non aveva mai fatto coming out, ma come lei stessa ha dichiarato: «mi è venuto naturale pensare alla mia Diletta. E non ai pregiudizi della gente». Una dedica per lei scontata e non necessariamente coraggiosa, fatta senza doverla urlare e senza commettere gesti plateali: ognuno vive la sua vita a modo proprio. Come il duo brasiliano di beach volley, Lili-Larissa, che oltre ad essere fortissime compagne di gioco sulla sabbia, sono anche una coppia nella vita, sposate sei anni fa a Cancún, in Messico. Come dire casa e bottega.
Olimpiadi delle minoranze, si è detto. «Chiamiamole donne» aveva sentenziato il New York Times all’indomani della finale degli 800 m femminile, quando c’è stato il primo podio “intersessuale”. Già, perché ai primi tre posti sono salite tre atlete che hanno fatto (e lo faranno ancora, ne siamo più che certi) parlare di sé: oro alla sudafricana venticinquenne Mokgadi Caster Semenya, argento alla burundiana di ventitré anni Francine Niyonsaba e bronzo alla keniana ventunenne Margaret Nyairera Wambui. Tutte e tre affette da chiaro iperandrogenismo, cioè eccessiva produzione di ormoni androgeni che le fa apparire poco femminili e sicuramente con una potenza muscolare “mascolina” contro di cui nessuna delle avversarie ha potuto nulla. Divenute quasi un fenomeno da baraccone, le tre campionesse hanno sfidato le maldicenze delle colleghe e delle loro rispettive federazioni, stampando sul podio un sorriso senza pari. «Dio mi ha fatto così ed io lo accetto. Sono fiera di me», ha dichiarato la Semenya, dopo aver cercato nel pubblico sua moglie Violet; poi davanti alle telecamere di mezzo mondo ha mimato il gesto di togliersi la polvere delle cattiverie dalle spalle: della serie “il problema è solo vostro”. Signori, questa ragazza (sì perché fino a prova contraria lo è sempre stata) ha vinto un alloro olimpico: vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare?