Xavier Dolan ha solo ventisette anni, ma ha già conquistato un posto di primissimo piano nel mondo del Cinema mondiale. Geniale, sfrontato e folle, i suoi film trasudano pop e trash, attraverso l’uso di scenografie coloratissime, una fotografia spesso impietosa nei primi piani, romantica nei campi lunghi dei paesaggi e poetica negli scorci di città. Disgustosamente melò nelle sue sceneggiature. Eppure, adoriamo incondizionatamente questo genio canadese di Montrèal.
Troppo giovane, dicono alcuni suoi detrattori, per fare scelte registiche talmente ardite anche per colleghi “più maturi”, tanto da sembrare forzature pur di apparire atipico, sorprendente e arrogante. Non siamo d’accordo, naturalmente. La potenza visiva delle immagini e delle storie che il “piccolo Xavier” riesce a trasmettere con le sue pellicole non ha pari: signori, qui parla il talento. Punto. Vedere i suoi film per credere. Anche se i primi sono introvabili, ma spulciando in rete si possono trovare in originale e probabilmente sottotitolati.
Il suo primo film (non come attore perché Dolan fa anche quello, e anche molto bene, avevate dubbi?), lo sforna nel 2009. Lui ha solo vent’anni, il film, tratto da una sceneggiatura, ampiamente autobiografica, scritta quando di anni ne aveva solo sedici e ha come titolo “J’ai tué ma mère” (“Ho ucciso mia madre”), si apre con una citazione di Maupassant: «Si ama la propria madre quasi senza saperlo, e non ci si accorge della profondità delle radici di questo amore se non al momento della separazione definitiva». E abbiamo detto tutto. Il regista canadese ci racconta, senza un filo di pudore, il complicato rapporto tra il sedicenne gay Hubert e sua madre Chantale. Un legame di amore e odio che sfocia in furia quando la madre decide di mandare il figlio in un collegio, subito dopo aver scoperto che quest’ultimo vuole andare a convivere con il suo ragazzo. Un chiaro omaggio a Truffaut per lo sviluppo della trama e a Wong Kar-Wai per l’immaginifica fotografia, che accompagnata da musiche fantastiche, impreziosisce la pellicola con veri e propri videoclip (da brivido quello, onirico, che indugia sul volto di Chantale morta, adagiato tra i fiori). Tra geniali slow motion e time-lapse, si rincorrono le scene madri (preparate i fazzoletti) fino al finale riparatore, che pur scontato, rivela tutta la debolezza emotiva del ragazzo e meno quella del cineasta.
Il secondo film del piccolo genio Dolan segue le orme del primo. Anche “Les Amour Imaginaires” del 2010, infatti, deve molto a Truffaut (là “I quattrocento colpi”, qui “Jules e Jim”) e Wang Kar-Way. Il film comincia con una video-confessione in bianco e nero del protagonista Francis, e già lo spettatore è lasciato nello sconforto: che avrà mai commesso, adesso, questo qui? Francis è omosessuale e ha un’amica del cuore, Marie. Entrambi s’innamorano di Nicolas, un affascinante campagnolo che si è trasferito a Montrèal: in questo pericoloso gioco a tre, l’equilibrio dei rapporti e delle emozioni, naturalmente, vacilla. L’amore cambia e ti cambia, che dire poi di uno totalmente immaginato? E se porta al dolore, come scrisse Sant’Agostino: «…beh, forse è meglio non preoccuparsi. Vuol dire che si è semplicemente vivi». Visivamente irreprensibile, il film ha una serie di sequenze che sono delle vere chicche: su tutte, citiamo quella, al rallentatore, con sottofondo la celebre “Bang bang” di Dalida. Da riempire il cuore di gioia cinematografica.
Terzo film, diretto nel 2012, il primo che non lo vede tra gli attori, è “Laurence Anyways”, presentato a Cannes come il precedente nella sezione “un certain regard”, e che da poco è uscito nelle sale italiane, sia fatta lode. In questa pellicola i richiami sono al melò puro del maestro del passato Douglas Sirk e del presente Pedro Almodovar (che tantissimo deve al primo, tra le altre cose). «Ho avuto poco tempo per guardare film. Sono giovane e ho iniziato a guardarli quando avevo 15-16 anni», ha dichiarato Xavier. E meno male, aggiungiamo noi. La storia è quella, narrata lungo un periodo di due lustri, di Laurence, di professione insegnante, compagno di Frèdèrique (che lui chiama al maschile, Fred), che decide di dare libero sfogo alla sua femminilità repressa. Pur desiderando la sua compagna, è intenzionato a cambiare sesso; al tempo stesso lei deciderà di restargli accanto. Ma non sarà semplice. Anche in questo film (che nella trama ricorda il più recente “The Danish Girl”), forse più degli altri a nostro avviso, abbonda il tecnicismo delle inquadrature, con i soliti slow motion e primissimi piani, che solleticano il voyeurismo più nascosto dello spettatore con inquadrature al limite del pudore.
“Tom a la fermè” è la pellicola numero quattro, presentata nel 2013 da Dolan al Festival del Cinema di Venezia, e il primo di cui non firma anche la sceneggiatura originale, poiché l’ha tratta da una pièce di Bouchard. Cinque capitoli per raccontare la storia di Tom, un giovane pubblicitario, che in occasione del funerale del suo compagno, si reca nella casa di campagna di famiglia, scoprendo che tutti ignorano la sua presenza e il suo rapporto col defunto. Sarà il fratello di quest’ultimo, Francis, che nutrendo qualche sospetto lo costringerà, per nascondere il segreto alla madre e salvare l’onore familiare, a un gioco perverso che li legherà in un rapporto ancora più perverso, violento e doloroso. Tra l’horror adrenalinico (con tanto di fantasmi, reali o della mente, poco importa) e il thriller psicologico alla Hitckock, è un film spudorato, eccessivo e irresistibilmente kitsch. Con tanto di gaissimo finale, strappa lacrime e strappa applausi, quando Tom ritorna dalla fermè alla civiltà, con sottofondo la struggente “Going to a Town” dell’icona omo per eccellenza degli ultimi anni, Rufus Wainwright.
Con “Mommy” datato 2014, il nostro enfant prodige ha vinto il Premio della Giuria al Festival di Cannes. Torna sul luogo del delitto Dolan, raccontando ancora una volta un burrascoso e, tanto per cambiare, melodrammatico rapporto tra Stevie (interpretato da un sorprendente Antoine-Olivier Pilon), un figlio tanto difficile e sua madre Diane (strepitosa l’interpretazione di Anne Dorval), vedova, disoccupata, nevrotica e terribilmente grossolana, che se lo va a riprendere dal riformatorio. I due vanno a convivere e cominciano un rapporto convulso, tra liti furibonde e rappacificazioni, tra lacrime, botte e sorrisi. «Ma noi ci amiamo ancora, vero?», «Certo, è la cosa che ci riesce meglio», questo un dialogo dopo aver finito di picchiarsi. Del resto, parafrasando Tolstoj, «tutte le famiglie infelici finiscono per assomigliarsi», anche quelle sopra le righe. Un condensato di rabbia sono i suoi personaggi, e in questo film in particolar modo, perché, come ha dichiarato lo stesso regista «hanno urgenza di esprimere il loro bisogno d’intimità, il rapporto conflittuale con la società, si vogliono difendere». Caratterizzato da una recitazione iperattiva e un montaggio nervoso, con inquadrature talmente vicine che suscitano angoscia e palpitazioni, e una fotografia che tortura gli occhi, passando da chiari abbacinanti a scene in penombra quasi notturna. Almeno una scena culto, a nostro parere: Steve accompagna sua madre a un appuntamento galante in un locale, dove fanno il karaoke e lui, corroso da una gelosia distruttiva nei confronti di sua madre, sale sul palco a cantare “Vivo per lei” di Bocelli e Giorgia. Chiaro il messaggio?
Il suo ultimo film, “Just la fin du mond” (nel cast Marion “Edith Piaf” Cotillard e Vincent Cassel), che ha vinto lo scorso maggio il Grand Prix Speciale della Giuria all’edizione numero 69 del Festival di Cannes, e che molti critici hanno giudicato un capolavoro, uscirà in Italia, per fortuna, il prossimo primo dicembre. Ci asteniamo da commenti prima di correre alla velocità della luce per andare a vederlo. Nel frattempo, attendiamo trepidanti.