Gli anni ’80 sono stati gli anni dell’edonismo, del desiderio sfrenato di apparire e di avere il proprio “momento di gloria”. Sono stati gli anni in cui Reagan diventa (per due mandati) il primo presidente-attore degli Stati “super potenza” Uniti; dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II; della rielezione a Primo Ministro del Regno Unito di Margaret “Lady di ferro” Thatcher; dell’elezione a Segretario del Partito Comunista dell’Unione “super potenza” Sovietica di Gorbacev e della Perestroika; di Lech Walesa e Solidarnosc; della strage di Bologna; dei nostri Mondiali di Calcio; della morte di Berlinguer e delle lacrime di Pertini; dello scandalo della “Loggia P2”. Chi è stato adolescente negli anni ’80 non aveva internet e le ricerche le doveva fare sui libri, magari andando in biblioteca, non aveva il cellulare e per telefonare doveva nascondersi dentro una cabina telefonica a gettoni, alla tv non c’erano reality show ma “Giochi senza frontiere” o “Sandokan”.
E proprio un ragazzo appena uscito dall’adolescenza diventa il caso letterario del decennio e un punto di riferimento per gli omosessuali, dichiarati e non, di tutto il mondo. Stiamo parlando di David Leavitt, che a soli ventitré anni (che invidia!) pubblicò il suo primo libro, “Ballo di famiglia”. Una raccolta di nove folgoranti racconti in cui il giovane David ebreo, gay dichiarato nato a Pittsburgh ma vissuto a Palo Alto in California, fresco di laurea alla celebre Yale University, rivela tutto il suo innegabile talento. Leavitt rappresenta una delle figure di spicco della giovane corrente letteraria definita “minimalismo” che aveva visto la luce con Hemingway e Carver tra i ’60 e i ’70, ma che esplose negli anni ’80 con scrittori come Breat Easton Ellis (“American Psyco”), McInerney (“Le mille luci di New York”) e Chuck Palahniuk (“Fight Club”).
“Ballo di famiglia” divenne una bandiera per la comunità omosessuale di tutto il mondo, e almeno per quella italiana in particolar modo perché, finalmente, qualcuno parlava di “coming out”, un termine adesso diventato di moda e che all’epoca rappresentava un enorme tabù. Poterne leggere era una vera e propria iniezione di fiducia per i gay e una scoperta per gli etero, capire finalmente che cosa si prova a rivelare la propria omosessualità in famiglia, o agli amici o sul posto di lavoro; il terrore di deludere o ferire chi ti sta di fronte, di essere visto con occhi diversi, di essere rifiutato. A farlo per tutti è il protagonista del primo racconto della raccolta dal titolo “Territorio”. Neil torna a casa dei genitori dopo due anni per far conoscere Wayne, il suo ragazzo. Qui anni prima si era dichiarato ai suoi. «Neil finalmente si fermò in cucina, dando la schiena ai genitori e disse, con inattesa facilità. “Sono omosessuale”. Le parole parvero insufficienti, riduttive. Per anni aveva creduto che la sua sessualità fosse scindibile dal nucleo essenziale del suo io, ma ora si rese conto che era una parte di lui….solo allora, per la prima volta, si decise ad ammettere che erano vere, e, scosso dai singhiozzi, pianse di dolore per quello che non avrebbe potuto essere per sua madre, per averla delusa». Neil è anche un ragazzo fortunato perché i suoi hanno una reazione tranquilla. Mentre il padre resta in silenzio, sua madre gli sussurra abbracciandolo «È ok, tesoro». E «per una volta, le parole di lei suonarono altrettanto inadeguate delle sue». La quintessenza delle madri, scrive Leavitt, chiedendosi «se il destino delle madri era quello di non aspettarsi niente in cambio, il destino dei figli era dunque quello di non restituire niente?». Sempre sarcastica e molto incline alla disillusione la descrizione che l’autore fa delle famiglie, tanto che nel racconto che ha dato il titolo alla raccolta, narrando di una danza improvvisata dai membri del nucleo familiare protagonista scrive: «C’è un’aria malsana dentro quel cerchio».
Ancora due “coming out” nel secondo lavoro di Leavitt, il bellissimo romanzo “La lingua perduta delle gru”. Quello di Jerene, una ragazza nera figlia adottiva di una coppia molto ricca e integrata nel mondo dei bianchi che però non ha l’effetto sperato. I genitori la rifiutano con violenza e lei va via di casa e va a vivere a New York. Qui, anni dopo incontrerà per caso sua madre e, spinta dal richiamo del sangue, la abbraccerà, ricevendone solo indifferenza. Andrà meglio al suo migliore amico Philip, che senza mezzi termini si dichiara ai genitori. Mentre suo padre Owen, pur con sofferenza (la comprenderemo sul finale), si sforza di mormorare un «Io penso…io penso che sia ok», sarà sua madre Rose che con durezza sbraita: «Io non sono una donna senza pregiudizi». Tosta Rose a comprendere che «Ciascuno a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo». Nelle pagine del romanzo ne comprenderemo anche il motivo.
Le madri sono un altro degli argomenti chiave del mondo letterario di Leavitt, e in particolare quelle malate, come sua madre, morta di cancro nel 1985. Madri coraggiose, forti e sempre impegnate socialmente, proprio come Louise, la protagonista del terzo lavoro e secondo romanzo, dal titolo “Eguali amori”. Bella come “Gene Terney”, la diva degli anni ’50, Louise è ammalata di cancro da molto tempo e ha due figli, entrambi gay, April, cantante folk che decide di avere un figlio con la fecondazione artificiale e Danny, avvocato. Un romanzo che trabocca disperazione attraverso una scrittura feroce che ci narra di come ci si possa sentire vivi anche con la morte che svolazza nell’aria e si posa su ogni pagina.
Altra raccolta di racconti, taglienti come lame affilate, è “Un luogo dove non sono mai stato”. Sotto attacco è ancora una volta la classe media dei bianchi: una ragazza lesbica invitata al matrimonio della sua ex, che fa tanto Altman; la storia di un gay filtrata dagli occhi della sua amica del cuore; uomini sposati che s’innamorano di altri uomini e vanno alla deriva sentimentale; la ricerca disperata dell’amore al tempo dell’Aids. Una storia d’amore sofferta per la chiara differenza sociale tra i due ragazzi e lontana dagli agi e dal consumismo yuppie degli anni ’80, rappresenta la trama del romanzo antifascista “Mentre l’Inghilterra dorme”. Ambientato negli anni ‘30, è la storia di un intellettuale inglese che, per protesta, va a combattere in Spagna. Ancora racconti, solo tre ma più lunghi sono racchiusi in “Arkansas”, dove la penna di Leavitt comincia a subire una sferzata verso il politicamente impegnato e verso una maturazione stilistica, più raffinata e meno sensibile, che però finirà per perdere il suo fascino “generazionale” e gran parte del suo affezionato pubblico. I successivi “Martin Bauman”, “Il voltapagine”, “La trapunta di marmo”, “Il corpo di Jonah Boyd”, “L’uomo che sapeva troppo. Alan Turing e l’invenzione del computer”, “Il matematico indiano” e “I due Hotel Francfort”, pur scritti in maniera mirabile sono senza anima e non suscitano quelle emozioni, piccole eppure capaci di insinuarsi sotto la pelle, che personaggi memorabili come Danny, Louise, April e Owen hanno saputo regalarci. Quando la nostalgia della loro assenza è prepotente, allora non ci resta che riaprire le pagine dei quei romanzi e incontrarli ancora una volta.