La cultura della (non) indifferenza: non solo una questione di parole
Anna Strippoli | 29 June 2016

È facile imbattersi in discorsi e argomentazioni sull’opportunità di accogliere o meno i migranti: si parla dei diritti di chi arriva e di chi dovrebbe ospitarli, della capacità di un paese e dei suoi cittadini di essere più o meno accoglienti, di ONU e Unione Europa. Tutto giusto. È ancora più facile che se ne parli in periodi elettorali – come le amministrative di questo periodo – e che si affronti la tematica da più punti di vista.

Accoglienza: parola fin troppo abusata, fraintesa, molestata. Si potrebbe parlare di ospitalità, di generosità, di solidarietà e se ne potrebbe parlare riferendosi non solo ai migranti, ma anche a chi – più “banalmente” – popola le strade delle nostre città con cartoni come coperte e il suolo come letto. E allora parliamone. Parliamo di chi vedo tutti i giorni nei pressi della stazione di Bari con una coperta di fortuna, sdraiato su una panchina o sotto un cornicione per ripararsi dalla pioggia e ritagliarsi un’idea di “privacy”, tra gli occhi di guarda e non osa avvicinarsi e quelli di chi passa senza neanche accorgersi della presenza. Parliamo anche di lui, che incontro per le vie del centro nei pressi di Corso Cavour: seduto a terra e appoggiato al contenitore per i rifiuti, che tende una mano a chi è disposto a rivolgergli uno sguardo. Non è un extracomunitario, potrebbe essere mio nonno. Mi fermo, gli chiedo se ha bisogno di qualcosa. Che domanda stupida, è chiaro che ha bisogno di tutto! Mi chiede soldi per comprarsi un panino e una birra. Una birra: un piacere a cui non vuole rinunciare, giustamente. Ma poi aggiunge: “Non ho una casa e non ho un lavoro”. Io gli rispondo: “Le credo” e lui: “Mi crede? Qui non si ferma mai nessuno”.

E allora penso a tutta quella gente che in quel pomeriggio ha passeggiato per le vie del corso per fare shopping e non si è fermata. Possibile? Per carità, nessuna retorica e nessun buonismo: non si può aiutare tutti e non siamo onnipotenti, è chiaro. Ma non posso non credere alla sua parola e l’idea che nessuno si fermi mai a manifestargli un minimo di interesse mi rattrista. Come possiamo pensare che qualcuno a chilometri di distanza da noi, nei palazzi del potere, possa interessarsi a quello che ci succede, se noi per primi non siamo in grado di fermarci un attimo a prestare attenzione a chi ci chiede solo di essere ascoltato? A chi si accontenta di scambiare una parola, per ricordarsi di esistere: come persona prima di tutto. Non è una questione di sopravvivenza, di alimentazione fine a se stessa: qualcuno, in silenzio, chiede soltanto che ci accorgiamo della sua esistenza, che gli attribuiamo la dignità di essere umano. Ripenso allora alle tante realtà associative, alle cooperative, ai volontari che impiegano tempo e risorse per dedicarsi a chi ha accettato di vivere ai margini, ma che – son sicura – vorrebbe ancora recuperare una dimensione più “umana”. Come si fa a recuperare questa dimensione? Col dialogo, con quel “contraddittorio” di cui già i filosofi come Hegel hanno parlato.

Ecco allora che dovremmo attribuire più valore alla parola “accoglienza”, capirne il significato profondo, andare oltre i preconcetti e convincersi che si può essere accoglienti sempre, con delle semplice parole o con un saluto banale. Dimentichiamoci un attimo di essere iperconnessi, di condividere sui Social Network anche il momento in cui ci allacciamo le scarpe e cominciamo a essere “social” veramente. Tutto questo è anche una questione di parole, ma soprattutto di cultura: la cultura della “non indifferenza”.

Foto: Ricardo Moraleida (CC BY-SA 2.0)

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