Il Sud si svuota: questo è un fenomeno ormai noto, triste e molto grave ma sul quale non si riflette abbastanza. È passato quasi sotto silenzio il rapporto Svimez 2018 che fornisce un dato inequivocabile: negli ultimi 16 anni hanno abbandonato il Sud qualcosa come un milione 833mila persone residenti. La metà di queste erano giovani. Come se due città pari a Napoli si fossero svuotate in appena tre lustri. Soprattutto, un’emorragia di futuro, perché a rimanere sono solo i “vecchi”. Perché se ne parla poco? Perché siamo tanto orgogliosi che i nostri figli vadano a realizzarsi in capo al mondo e ci lascino soli nella nostra “decrescita infelice”? In capo al mondo hanno il diritto di andarci, se vogliono, ma non devono essere condannati a farlo. Mi sembra giusto dirlo.
La velocità con cui le regioni meridionali stanno perdendo la loro popolazione assume ormai i connotati di un'emergenza vera e propria, contro la quale però non si fa nulla. Dopo gli anni del “riequilibrio”, quando, alla fine del secondo millennio, anche in conseguenza di una serie di misure finanziarie di sostegno, la distanza Nord-Sud si era ridotta, l'ultimo ventennio ha conosciuto una ripresa della distanza, soprattutto a seguito delle spinte di forze politiche che, facendo leva sul federalismo esasperato, puntavano essenzialmente sul secessionismo, o comunque sul disequilibrio tutt'altro che solidale. C'era chi, in alcuni governi, sosteneva che il futuro per i giovani del sud era nell'emigrazione (Tremonti a “Porta a porta”) ed è purtroppo quello che sta avvenendo. Anche se gli emigranti non viaggiano più con la valigia di cartone, la situazione sembra ripercorrere fenomeni accaduti in precise epoche storiche: dopo l'Unità d'Italia, dopo la Prima guerra mondiale, con grande esodo verso le Americhe, dopo la Seconda guerra mondiale, con l'esodo verso i paesi del Nord Europa o del Nord Italia.
Due milioni di meridionali sono andati via negli ultimi quindici anni, dunque, molti di più potrebbero andare via in futuro, se non si inverte la deriva che ci sta investendo, in attesa di un reddito di cittadinanza che non arriverà mai o che, se arriverà, premierà la criminalità (e questo proverò a spiegarlo un'altra volta). Anche perché famiglie se ne formano sempre di meno e nascono pochissimi figli. I giovani vanno via e non tornano, la popolazione diminuisce e basta uscire per strada, in una città delle nostre, per rendersi conto che non c'è un solo stabile che non esibisca annunci di vendita o di locazione di appartamenti. Che nessuno compra e nessuno loca. E non parliamo dei locali commerciali!
Qualcuno aggiungerà, tra l’altro, che se n’è andata la meglio gioventù: i laureati, i più motivati, quelli che non si accontentavano di “tirare a campare”, o che non erano immischiati con il malaffare. Ed è così. D’altronde, che rimanevano a fare?
L’intera Basilicata, che non è la regione più depressa del Sud, ha complessivamente meno aziende di un paesone della cintura urbana milanese. Lì capita che per un posto di lavoro in Comune ci siano migliaia di partecipanti; nel paesino di Selva di Progno (montagna veronese) nessuno s’è presentato per un posto di ragioniere comunale.
Quindi? Recitiamo il de profundis o proviamo a cambiare rotta? Rimanere e stringere legami con altri significherebbe contrastare un fenomeno che non fa bene a nessuno: né a chi fugge e si espianta dalla propria terra, né a chi rimane in un panorama sempre più desertificato, né all’Italia.
Per una volta tanto, l’appello va rivolto appunto a quei giovani che stanno pensando a cosa fare nella vita. Fuggire da soli equivale a contribuire a smontare un’intera società. Rimanere e stringere legami con altri, per provare a fare qualcosa, per unire le forze anche finanziarie, per sviluppare le occasioni che pure il Sud offre, significherebbe veramente contrastare un fenomeno che non fa bene a nessuno: né a chi fugge e si espianta dalla propria terra, né a chi rimane in un panorama sempre più desertificato, né all’Italia stessa, dentro la quale convive il terzo distretto economico europeo (Brescia) e l’ultimo (Crotone).
È vero, qualcuno suggerisce: cooperative sociali, start up, imprese che si rivolgano al turismo, all’agroalimentare di qualità, alle nicchie artigianali quasi scomparse nel resto del mondo, alla cultura che dà reddito laddove s’impara a sfruttarla bene, ai servizi alla persona… E perché, pensando a come impiegare bene gli aiuti pubblici, non si possono immaginare, infrastrutture decenti, poli medico-sanitari di assoluta qualità, o un polo universitario capace di confrontarsi con il meglio del mondo? Non è strettamente necessario lasciare in vita atenei che sono puri “laureifici”… Certo, ci vorrebbe una politica efficace e non autoreferenziale; ci vorrebbe l'applicazione di un concetto aulico e sconosciuto come la sussidiarietà.
Ma intanto un altro colpo di grazia alla scarsa capacità autoaggregativa rischia di darlo il decreto sicurezza che non solo non dà sicurezza ma toglie quella poca che si è creata, che trasforma i migranti in clandestini e potenziali delinquenti e che, col taglio delle rette per l'accoglienza, bisogna avere l'onestà di dirlo, creerà nuova disoccupazione e povertà perché parte dei 35 euro speso per mantenere un migrante (che sono pagati dalla Ue per l'80%) servono a retribuire formatori, insegnanti, psicologi, assistenti sociali; ad acquistare libri, quaderni, a riparare i telefonini ad acquistare le schede, ecc... tutti soldi che rimangono nel territorio, e che rischiano di sparire, creando nuovi disoccupati.
Allora, bisogna lottare attivamente contro la rassegnazione e contro chi la alimenta. Contro chi ci fa credere che sia normale che il Sud si svuoti. E contro la tentazione di diventare soggetti destinatari di un sussidio (per altro improbabile) da ricambiare con il voto e l’acquiescenza. Sono situazioni di corto respiro che presenteranno il salato conto fra poco, anzi lo stanno già presentando, e soprattutto cancellano quella speranza di trovare la dignità nel lavoro, che sta spegnendo una generazione. Qui nel Sud.