“La paranza dei bambini” di Roberto Saviano, Feltrinelli, Milano, 2016
Dino Cassone | 5 December 2016

la-paranza«Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L’unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d’uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d’istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte».

Dieci personaggi, che vivono nel quartiere Forcella di Napoli, dai soprannomi stravaganti: Maraja (il capo), Briato’, Tucano, Dentino, Drago’, Lollipop, Pesce Moscio, Stavodicendo, Drone, Biscottino e Cerino, che utilizzano un idioma stravagante (inventato ad hoc) e che, ne siamo certi, entreranno immediatamente nell’immaginario collettivo delle nuove generazioni e non solo. Esattamente com’è accaduto ai personaggi della serie televisiva “Gomorra” che è citata persino da questi boss in edizione tascabile come fonte d’ispirazione. Autocelebrazione? Quadratura di un cerchio, probabilmente. Sì, perché l’impressione che si ha leggendo l’ultimo romanzo di Roberto Saviano “La paranza dei bambini”, appena pubblicato da Feltrinelli, è quella di trovarsi di fronte ai ragazzini in mutande del libro che imbracciano i fucili (e che rimandano alle crude immagini del film di Garrone), o alla banda composta di giovanissimi di Ciro Di Marzio nella serie tv. Solo che qui Saviano ha abbassato ancora l’asticella dell’età: i protagonisti non hanno ancora quindici anni.

«Il nome paranza viene dal mare», ci spiega l’autore nell’incipit, utilizzando il termine come similitudine per spiegare questa “banda in erba”, che come la frittura «è lo scarto dei pesci che solo nell’insieme trova il suo sapore. Da soli non hanno prezzo, alcun valore, raccolti in un cuoppo di carta e messi insieme diventano prelibatezze». Ragazzi che coltivano due passioni: le citazioni cinefile, da “Il Camorrista” di Tornatore a “Quei bravi ragazzi” di Scorsese, passando ovviamente per “Le iene” di Tarantino, e i video games, su tutti “Assassin’s Creed” e “Call of duty”. A bordo dei loro motorini sfrecciano per le strade del centro storico della città, impavidi sfidano il futuro e la morte per andare a prendersi i soldi e il potere. Non vogliono essere schiavi di qualcuno, pretendono il rispetto da tutti, boss compresi, e lo faranno usando ogni mezzo illecito senza guardare in faccia nessuno. Sporcandosi le mani.

Forcella, il luogo da dove parte il romanzo, è quasi d’obbligo, perché «è materia di Storia. Materia di carne secolare. Materia viva», così com’era d’obbligo ambientare un romanzo del genere a Napoli, dove «non esistono percorsi di crescita: si nasce già nella realtà, dentro, non la scopri piano piano». Qui si muovono i baby gangster, che già in fasce hanno imparato ad assumere “lo sguardo”, che «è territorio, è patria, guardare qualcuno è entrargli in casa senza permesso. Fissare qualcuno è invaderlo. Non voltare lo sguardo è manifestazione di potere». E come prolungamento di quello sguardo, due strumenti: il linguaggio, che trova il suo apice in “è tutto a posto”, definita dall’autore «l’espressione universale. L’immagine del tutto che va secondo l’ordine stabilito», e le armi, che «sono fatte per i bambini».

Roberto Saviano è ormai diventato un personaggio che divide: idolatrato da un esercito di ammiratori o bersagliato da chi lo ritiene troppo “star”, tuttologo e prezzemolo di ogni minestra, che getta fango sulla “sua Napoli” solo per tirarci su un bel po’ di soldi. Resta che “La paranza dei bambini” (a proposito, splendida la copertina) è un romanzo brutale, che non lascia scampo e, soprattutto, scritto magnificamente. O’ guaglione sa scrivere, cazzo se lo sa fare.

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