Preceduto da scelte cabalistiche questo ultimo bel romanzo di Jonathan Coe. Undicesimo libro pubblicato dall’autore inglese, uscito l’undici di novembre, undicesimo mese dell’anno e intitolato, naturalmente, “Numero 11”. Nella versione italiana accompagnato da un sottotitolo chiarificatore: “Ovvero leggende che testimoniano follia”.
Coe è uno dei più importanti scrittori contemporanei della scena anglosassone. Fortemente politico (ha assistito alla fine della swinging London e l’ascesa e il declino di Margareth “Lady di Ferro” Thatcher), usa con equilibrio magistrale critica e sarcasmo, forte di una prosa lineare e priva di fronzoli. A soli ventisei anni pubblica il suo primo romanzo “Donna per caso”; la fama arriva nel 1994 con “La famiglia Winshaw”, la fantastica saga di una famiglia maledetta; la consacrazione arriva nel 1997 con il sublime giallo psicologico intitolato “La casa del sonno”.
Il romanzo (corposo, 381 pagine) è composto da cinque racconti, che, solo in apparenza, sembrano slegati tra loro, salvo scoprire che, al contrario, lo sono attraverso i vari personaggi. Cinque mini-puzzle che pagina dopo pagina vanno a completarsi e al tempo stesso a completare il puzzle gigante che è rappresentato dall’intero romanzo. Con un filo conduttore ben delineato: la follia e, come un’ombra ingombrante, ancora una volta i membri discendenti della famiglia Winshaw.
La narrazione parte con la storia di due ragazzine, Rachel e Alison, alle prese prima con la notizia della morte di David Kelly (impiegato al Ministero della Difesa ed ex ispettore Onu che denunciò le false motivazioni utilizzate da Blair per far entrare l’Inghilterra in guerra contro l’Iraq), che i media vogliono far passare per suicidio; poi con una strana donna, “la pazza del Gheppio”, che vive in una suggestiva casetta nel bosco (Cappuccetto Rosso? Hansel e Gretel?); successivamente troviamo Rachel come istitutrice di due gemelle, figlie della straricca valchiria Lady Gunn, che abitano in una gigantesca magione, sotto le cui fondamenta (undici piani sottoterra, ovviamente) si apre un gigantesco buco comunicante con le viscere della terra abitato da una presenza misteriosa e mostruosa; poi c’è la storia, tra l’ossessivo e il nostalgico, di un uomo che si affanna alla ricerca di un cortometraggio da lui ritenuto “magico” che ha visto in un lontanissimo pomeriggio della sua infanzia e mai più rivisto.
Tanta la carne al fuoco messa dall’autore anglosassone: disoccupazione, povertà, tv spazzatura, corruzione, malcostume della politica e tanto altro ancora. Insomma, l’eterno dualismo tra chi possiede e chi non ha nulla, tra il bene e il male, descritto con l’eccellente penna di Coe, intinta nell’ironia graffiante che finisce per sfocare nel veleno. Un romanzo assolutamente da leggere, non fosse altro per il sublime finale, un po’ fantasy e un po’ horror, dove a vincere è una giustizia che ha il sapore della poesia.