Ombre sulla città perduta è un “giallo” con dei protagonisti che si intrecciano in una storia d’amore intensa; ma la protagonista vera è Taranto
Di Michele Cristella
Il futuro è “come quella cappa di fumo che assedia il tramonto, non potendolo uccidere, ma si vendica con chi ci vive sotto”. È una delle metafore efficaci di cui si nutre “Ombre sulla città perduta”, romanzo di Silvano Trevisani edito da Radici future, prosa e introspezione di chi ha molto letto e molto scritto e ora restituisce il suo bagaglio intimo alla carta.
È un “giallo” quello di Silvano Trevisani, con dei protagonisti che si intrecciano in una storia d’amore intensa; ma la protagonista vera è Taranto, anzi Tarentum, una città passata da una lontana gloria alla polvere e qui rimasta. Il protagonista del racconto, poi, è un tarantino d’oggi, che scopre, e rivela, che il luogo luminoso, distintivo dell’antica floridezza, è oggi un luogo nascosto, distintivo della perdizione.
Trevisani, penna delle pagine culturali del Corriere del Giorno e del periodico diocesano “Dialogo”, pur essendo grottagliese è un conoscitore dal di dentro dell’anima tarantina, quella civile e quella etica, quella storica e quella quotidiana, quella letteraria e quella della cronaca.
Non si può svelare la trama d’un giallo, che per sommi capi tratta di un geometra, Andrea, in cerca di lavoro e del suo amico fidato, il giornalista Silvano; delle sue due donne, la svampita Lilli e l’indiana adottata, ripudiata e innamorata Shabana, o Sciascià – Gisella, “dagli occhi profondi”; del malmostoso mondo degli affari e della politica intorno alle commesse militari e a quelle della gestione dei palazzi del Centro storico, abitati e cadenti; infine il folle ambiente del commercio illegale dei reperti archeologici, che fanno scoprire una Taranto nascosta, buia e viziosa, nei sotterranei dell’Anfiteatro, cioè del più prestigioso monumento architettonico di una città che fu gloriosa e ricca, il cui anfiteatro, perciò, non poteva che essere grandioso. E cenni della Taranto avvelenata dalla sua fabbrica, dai quali Trevisani fugge, portandosi il lettore, memore degli immortali versi virgiliani poi danteschi: l’infandum dolorem e il disperato dolor.
A suo tempo Taranto è stata città egemone della Magna Grecia, con il suo strategos, Archita, filosofo pitagorico, omaggiato da Platone, che venne a fargli visita e che, forse, da lui capì che la politica dev’essere affidata o a filosofi o ad amanti della filosofia; dall’essere tarantino il brillante allievo di Aristotile, Aristosseno, primo musicologo al mondo, aspirante alla cattedra dello stagirita, che però fu affidata a Teofrasto; città dalla vita civile brillante, come racconta il capuano Nevio ne la Tarentilla, e come racconta l’anonimo atleta vincitore di quattro giochi panatenaici nel pentatlon; infine fu Taranto la porta dalla quale la cultura greca giunse a Roma, da far dire a un innamorato del clima e del paesaggio di Taranto, il venusino Orazio, che “la Grecia conquistata conquistò il selvatico vincitore ed introdusse le arti nell’agreste Lazio”.
E nelle righe di Trevisani, quasi malinconico sottofondo, s’ascoltano i celeberrimi versi leopardiani: chi la “ridusse a tale?”, l’Italia e Taranto.
Il “giallo”, la ricerca di una Venere d’oro, si snoda su una stridente dissonanza: la città celebrata da Orazio e rimpianta da un prof. d’archeologia, e quella d’un lupanare, del cielo avvelenato e della città cadente, e tuttavia con una storia d’amore intensa e incompiuta.
Da esser intrisa, questa storia d’amore fra Andrea e Shabana, dello spirito di Taranto: città “senza più memoria”, il cui futuro è “come quella cappa di fumo che assedia il tramonto, non potendolo uccidere, ma si vendica con chi ci vive sotto; ma poi si impara a convivere”, città, come Andrea e Shabana, “fuggitiva da se stessa”.
Verrà la vivibilità di questa città che pur fu grande? Sciascià se n’è andata, Andrea si rifugia a piangere in una chiesa e una vecchietta gli dice di pregare san Giuseppe, che una grazia non la nega a nessuno; e quando, Andrea, tentò “di forzare la porta della stanza della sua anima (…) s’accorse di star guardando all’esterno: se ne stava uscendo”, e il tramonto è sempre offuscato dal fumo della fabbrica nella quale per lavorare e campare bisogna ammalarsi e morire.
Infine un’inquietudine pervade il lettore: e se l’introvabile Venere d’oro fosse proprio l’antica Taranto, coperta da molte polveri?
La prosa e l’introspezione di Trevisani hanno la raffinatezza e la profondità di chi ha molto letto e molto scritto e di tanto in tanto alcuni suoi versi, inediti, illuminano l’animo dei protagonisti e… della città.