Nessun congedo; quello che avrebbe dovuto essere il testamento letterario di Antonio Moresco, “L’addio” (Giunti Editore), diventerà una trilogia. L’ha rivelato lo stesso maestro durante un incontro, precisando intanto che «avrebbe voluto non pubblicare per un bel po’ di tempo», e che invece D’Arco e tutti i personaggi del suo ultimo romanzo hanno continuato a bussare alla sua porta e a non dargli tregua. E così avremo, con immensa gioia, altre pagine, altri due capitoli: “L’amore”, incentrato sulla relazione tra lo sbirro protagonista della storia e la donna senza nome (vi conviene leggere il romanzo per comprendere) e “Le città di frontiera” a chiudere la trilogia, nei quali l’autore mantovano darà risposta ai molti dubbi seminati nel primo. Nel frattempo, come vecchi amici, abbiamo voluto chiacchierare con Moresco non dei suoi libri ma di letteratura.
Che tipo di lettore è Antonio Moresco?
È una bella domanda! Io ho avuto molta difficoltà a leggere da bambino, ho faticato tanto. Quando ho cominciato intorno ai tredici-quattordici anni, leggevo libri a caso, perché a casa mia non leggeva nessuno a parte mia sorella i romanzi per le ragazze di allora. Ed io ho letto quei libri lì fino a quando, andando a tentoni lentamente, ho cominciato a fare delle letture “un po’ più di sostanza”. Ho iniziato davvero a leggere però a trent’anni, che poi è quando ho cominciato veramente a scrivere. Siccome ero abbastanza ignorante, non avendo frequentato l’università ecc., ho cominciato dall’inizio: Omero e i greci, poi i romani e così via. Diciamo che per me leggere è molto più bello che scrivere, perché per scrivere, devi faticare, devi aprirti le vene; invece da lettore, tutto questo l’hanno già fatto gli altri. Amo moltissimo la lettura, fin da ragazzo: via via mi si sono precisati gli scrittori preferiti, li ho proprio cercati; nessuno mi ha mai dato suggerimenti: li ho trovati da solo, così come si trovano dei fratelli, nel buio, andando a tentoni.
Così come noi abbiamo trovato te, in fondo… In un’intervista hai dichiarato che la cultura e la letteratura attuale si sono fatte pietrificare dallo sguardo della Medusa. A chi o a cosa ti riferivi?
Ho una sensazione molto forte: alla fine dell’Ottocento e in modo più dispiegato nel Novecento, lo scrittore ha subito via via un’identificazione con quello che io chiamo l’aggressore. Molto spesso la letteratura si è chiusa in una dimensione nichilistica, ma non il nichilismo con una forte carica di verità negativa come quella dei grandi scrittori e poeti dell’Ottocento, piuttosto una sorta di nichilismo più leggero che però chiudeva gli spazi alla letteratura per una visione che potesse aprire i giochi bloccati nella vita. Questo è accaduto in Europa in particolare, perché la letteratura negli altri paesi non ha avuto quest’avvolgimento in se stessa. Mi sono fatto un’idea: l’Europa è stata un continente che ha subito due devastanti guerre mondiali e quindi ha toccato con mano l’orrore, il male e la morte, che io chiamo “lo sguardo della Medusa”. Ha elaborato così il lutto: andando verso un’idea di chiusura profonda dei “possibili” dentro la letteratura, per cui sono nati scrittori grandi e importanti, come ad esempio Beckett, che però hanno portato la letteratura in un vicolo cieco.
Utilizzando sempre una tua frase, da lettore cosa ti piacerebbe “che passasse attraverso la cruna della letteratura”?
Mah sai, anche gli scrittori più amari e più lucidi coltivano dentro di sé delle illusioni fortissime, altrimenti non sarebbero scrittori. La mia speranza è che possa avvenire un incontro profondo tra anime, che non considero mai staccate dal corpo. La mia massima illusione è che le solitudini si possano incontrare tra loro e possano fare “popolo”.
Il tuo punto di vista sull’editoria lo conosciamo bene, soprattutto dopo l’esperienza vissuta al Premio Strega. Ma quello sulla letteratura? In che direzione credi stia andando oggi?
È molto difficile generalizzare perché ci sono scrittori americani che vanno in una direzione, cinesi come Mo Yan che è molto bravo, che vanno in un’altra, oppure gli israeliani che vanno in un’altra direzione ancora. Credo che proprio perché stiamo vivendo un periodo drammatico e di crisi, ahimè, è un momento buono per la letteratura; quando si chiudono le strade, quando si spengono le speranze, la letteratura ha un suo posto “insurrezionale” dentro un periodo di buio come quello che stiamo vivendo. Io ho questa percezione ed è così che lavoro e che scrivo. Vero è che la letteratura sta combattendo contro la chiusura di spazi enormi, la sua dimensione è sempre più giocata sui déjà-vu, sui prodotti che vanno bene per il mercato. Deve combattere una battaglia disperata anche dentro la letteratura stessa.
Pensi che fra cento o duecento anni ricorderemo qualche voce potente della letteratura di oggi? Hai qualche nome da rivelarci?
Io vorrei pensare di sì! Sui nomi non saprei, perché quello che appare grande al momento magari più in là non sai più chi sia o cosa potrà diventare. In questi giorni, ad esempio, sto leggendo le lettere di Flaubert in cui si parla di scrittori notissimi in quell’epoca e che oggi nessuno legge più o sa chi siano; parla anche di altri scrittori che magari sembravano più strani e che poi invece hanno incarnato un’epoca. Insomma, fare delle previsioni vuol dire certamente prendere una cantonata.