I flussi migratori, intensificatisi soprattutto negli ultimi anni, sono il sintomo più evidente dell’instabilità politica di numerosi paesi che si affacciano sul Mare Nostrum e dell’Africa subsahariana.
La posizione strategica dell’Italia all’interno del bacino mediterraneo favorisce l’approdo di molti migranti che scelgono proprio le vie del mare per raggiungere il Bel Paese, che quasi mai però rappresenta la loro meta definitiva, ma vuole essere semplicemente un corridoio verso altri Paesi dell’Unione Europea, nella speranza di un’esistenza migliore.
Dopo lo sbarco in veri e propri “porti umani”, quali ad esempio quelli di Lampedusa e Marsala, il sistema di accoglienza italiano si articola in due fasi: la prima ha luogo nei centri di prima accoglienza governativi, la seconda, quella che effettivamente dovrebbe far sì che vengano attivati servizi volti a fornire assistenza e protezione ai rifugiati, prosegue all’interno dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) o, come spesso avviene, sfocia in soluzioni di ambigua legalità e di dubbia garanzia di una vita dignitosa.
A Bari, l’ex liceo classico Socrate, l’ex plesso industriale S.E.T. e il Ferrhotel, albergo abbandonato di proprietà di Trenitalia, rappresentano centri di seconda accoglienza per migranti provenienti da tutta l’Africa. E questi sono l’esempio principe di come questo nostro sistema faccia acqua. Abitati in momenti differenti (dal 2009 l’ex liceo classico Socrate ed il Ferrhotel, dal 2014 l’ex S.E.T.) e nonostante l’autorizzazione da parte degli enti locali all’occupazione delle strutture, gli stessi non si sono poi impegnati per la messa in opera di progetti in grado di fornire accoglienza integrata, diritto dei rifugiati.
E allora, aiutati da un comitato di supporto che ha permesso la transizione dal dormire per strada all’avere un tetto sulla testa, gli occupanti dei centri hanno intrapreso attività autorganizzate che hanno temporaneamente ovviato alle inadempienze degli organismi preposti. Ma, malgrado l’aiuto di volontari, la situazione è precipitata negli anni. Col passare del tempo, infatti, le iniziative di autogestione hanno avuto sempre meno efficacia per il disagio sociale che affligge gli occupanti, sia per la totale indifferenza degli organi competenti ai loro problemi. Gli sforzi encomiabili del volontariato sociale non possono sostituirsi agli adempimenti delle Autorità, e la mancanza di queste ultime ha determinato una profonda sfiducia nelle istituzioni da parte degli immigrati. Sfiducia che si riflette nella proiezione di un futuro senza alcuna sicurezza di un’esistenza decorosa.
Attualmente gli occupanti avrebbero bisogno di assistenza sanitaria e sostegno sociale, di attività multiculturali, di un adeguato inserimento scolastico di minori, di mediazione linguistica e culturale, di apprendimento della lingua e talvolta anche di alfabetizzazione, di orientamento e informazione legale, di sistemazioni abitative, di collocazione lavorativa, di servizi di formazione e di tanto altro ancora. Infatti, molti extracomunitari non si sono integrati né culturalmente né linguisticamente, e ciò è sinonimo del fatto che da quando vivono qui – alcuni addirittura anche da cinque anni – non hanno mai lavorato ma hanno trascorso intere giornate in struttura, bivaccando e annoiandosi. Le condizioni igienico-sanitarie poi sono manifestamente carenti: odori malsani, sporcizia, proliferazione di insetti infestano gli ambienti da loro abitati.
Le foto, a sostegno della denuncia dello stato nel quale versano edifici ed occupanti, fanno parte di un progetto in fase di crescita che ha come fine ultimo la documentazione della condizione e del dramma di queste individui che, partiti dal Sud del Mondo con la speranza di una vita migliore verso il più prospero Nord, si trovano invece bloccati in una nazione che difficilmente potrà garantire loro un’alternativa migliore.
Proprio la mancanza di occupazione, e quindi l’assenza di reddito, bloccano questi immigrati in un limbo italiano, ed europeo, fatto di leggi a volte insensate e poco rispettose, in una labirintica e problematica burocrazia, senza avere neanche la possibilità di fare rientro in patria o raggiungere i loro cari in altre nazioni d’Europa.