Siamo uomini o veterinari?
Carmen Trigiante | 23 May 2016

L’allarme dell’ANMVI (Associazione Nazionale Medici Veterinari) e del SIVELP (Sindacato Italiano Veterinari) lascia con l’amaro in bocca, ma non sorprende i tanti proprietari di animali d’affezione: i farmaci veterinari sono venduti ad un prezzo 3-4 volte superiore rispetto a quelli umani contenenti lo stesso principio attivo. Ciò vale per antidolorifici, antibiotici, diuretici, antidepressivi e perfino per gli antidoti usati in caso di avvelenamento da esche per topi, e mette in seria difficoltà non solo i proprietari di cani, gatti e piccoli roditori, ma anche i veterinari che svolgono la libera professione. La dottoressa veterinaria Donatella D’Aloja, che sin da giovanissima dedica tutte le sue energie alla cura dei nostri amici a quattro zampe, ci spiega che, chi svolga la professione secondo legge e coscienza, non può evitare di trovarsi in una situazione di imbarazzo quando è costretto a prescrivere un farmaco veterinario molto più costoso di quello umano contenente lo stesso principio attivo.

La legge 193 del 2006, infatti, impone, salvo incorrere in sanzioni esorbitanti (dai 1500 ai 9000 € per i trasgressori), di prescrivere sempre il farmaco veterinario, indicandone in ricetta il nome commerciale e non solo il principio attivo, come invece avviene per la medicina di base umana nell’ottica di tutelare le tasche dei pazienti. Unica eccezione si ha quando il farmaco veterinario non sussiste, ed allora è possibile prescrivere il farmaco umano, come nel caso della cura per l’epilessia, che prevede uno stretto protocollo al fine di evitare che a qualcuno venga in mente di far prescrivere il farmaco per il povero cagnolino e poi cogliere l’occasione per unirsi al banchetto, trattandosi, appunto, di psicofarmaci. “Naturalmente comprendiamo l’entità delle spese sostenute dalle case farmaceutiche per la messa a punto di farmaci studiati ad hoc per animali anche di piccolissima taglia, oltreché per mantenere una fitta rete di professionisti dediti alla preziosa attività di informazione scientifica.

Noi veterinari, che cerchiamo di rispettare la legge, ci rendiamo però conto che i costi finali risultano spesso proibitivi per le famiglie, talvolta costrette a rinunciare a curare l’animale, o addirittura spinte ad abbandonarlo nei canili perché non possono provvedere alle spese sanitarie”. Insomma, sarebbe anche interesse dello Stato mediare tra le esigenze economiche delle case farmaceutiche e quelle dei cittadini, nell’ottica di strutturare valide politiche sociali di contrasto all’abbandono, fenomeno che grava economicamente sulle casse dei Comuni.

Si potrebbe ipotizzare un’assistenza sanitaria veterinaria? La gentile veterinaria sorride, e c’è da immaginare che la domanda appaia perfino buffa, in un Paese che mira a demolire il servizio sanitario nazionale. Eppure, come si suol dire, la speranza è sempre l’ultima a morire, e in questo caso bisogna prendere coscienza che sarebbe l’unico vero modo per dare una mano ai tanti italiani di buona volontà che tolgono i quadrupedi dai canili alleggerendo il peso per la collettività, e, al tempo stesso, per dare una mano ai poveri veterinari, liberandoli dalla scelta dolorosa tra commettere un illecito o lasciare che quel cagnolino non sia curato perché la famiglia non può permetterselo.

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