Alfredo Morabito è coordinatore nazionale progetto coopstarup-coopfond
La cooperativa è ottima per le startup, ma prima bisogna farsi delle domande
Alfredo Morabito | 24 April 2018

Proviamo a domandarci perché un ricercatore particolarmente smart, un giovane che ritiene di avere un’idea brillante, un gruppo che opera in azioni di trasformazione urbana, un potenziale startupparo dovrebbero scegliere la forma cooperativa per dar vita alla propria impresa. Spesso è un interrogativo inesistente e, forse per ignoranza o più semplicemente per pigrizia, si pensa a una società di capitali tradizionale, per azioni o a responsabilità limitata.

Eppure è ormai considerato fattore di successo il far crescere la propria idea imprenditoriale in un gruppo composto da persone con differenti attitudini e professionalità, in un ambiente paritario in cui ognuno può ottenere un risultato proporzionale al proprio apporto, mantenendo il controllo della propria idea e del conseguente prodotto/servizio, decidendo senza intermediari se e a chi cederla in uso o proprietà. In questo contesto la qualità del valore prodotto non è determinata esclusivamente dal grado di remunerazione speculativa del capitale di rischio (spesso, nel modello capitalistico, le società appartengono a soggetti finanziari che non gestiscono direttamente l’impresa), ma dalla qualità e dalla quantità degli apporti professionali (intellettuali e materiali) di coloro che gestiscono l’impresa e producono valore. Il valore rimane nell’impresa, ai soci lavoratori e per gli investimenti, produce importanti esternalità positive per il territorio in cui opera e per gli stakeholder. Utilizza il capitale finanziario che, però, è uno strumento della produzione e non il fine ultimo dell’attività.

Questo tipo di impresa è la cooperativa (società di capitali, spa o srl, contemplata nel codice civile e con una storia che ne indica la sua longevità, oltre 150 anni). Per costituirla sono necessari almeno tre soci (ma ci sono cooperative consolidate con migliaia di soci); il rapporto tra i soci tra di loro e tra loro e la società è di scambio mutualistico, per cui ognuno apporta valore tramite il proprio lavoro e ne trae un valore proporzionale. In questo tipo di impresa si conta in quanto persona e non in funzione del capitale di rischio apportato, comunque necessario anche a tutela della sostenibilità dell’impresa e al suo controllo (una testa, un voto); se sostenibile, l’indivisibilità di buona parte del patrimonio la rende intergenerazionale, garantendone lo sviluppo nel tempo e mantenendola per i successori.

Tra i ricercatori e gli startuppari l’obiezione più frequente a giustificazione della mancata scelta della forma cooperativa è che con questo tipo di impresa non sarebbe possibile trovare i capitali sufficienti allo sviluppo dell’idea. È falso perché una cooperativa può raccogliere i capitali necessari come qualsiasi altra società. Se l’idea è valida e i promotori capaci e convinti, il problema è difficilmente attribuibile alla carenza di capitali (che anche i promotori devono apportare) quanto alla debolezza del piano industriale. Quello che cambia è la funzione obiettivo. Se vogliamo ottenere una remunerazione speculativa, vendendo il nostro progetto o meglio la nostra impresa appena raggiunge un certo grado di sviluppo, dobbiamo fare una società di capitali classica in quanto contendibile e cedibile in toto. Se invece vogliamo far crescere la nostra impresa rimanendo protagonisti, trovando soci e risorse finanziarie pazienti che con noi condividano rischio e risultati, ottenendo remunerazioni potenzialmente interessanti rispetto ad altri impegni, anche se non speculative, allora facciamo una cooperativa.

Superando quindi ignoranza e pigrizia, speriamo che questa forma di impresa, che rimane fortemente innovativa, sebbene la sua storia sia antica, possa interessare maggiormente quei settori innovativi che fino ad oggi non l’hanno considerata in tutte le sue potenzialità, a partire dal mondo della ricerca accademica.

Commenti