Paolo Ciocia è avvocato e docente a c. nell'Università di Milano
Usare la parola "contratto" in politica fa scena, ma è improprio
Paolo Ciocia | 17 May 2018

Le interferenze tra la lingua comune e linguaggio del diritto sono note. Da sempre le reciproche contaminazioni rendono vitali entrambi i “registri comunicativi”, alimentandoli a vicenda. Le parole, tuttavia, sono destinate ad un inevitabile processo di erosione e cambiano lentamente, quasi inavvertitamente, significato, come persino la roccia cede al fluire delle onde.  In entrambi i campi, il decorso del tempo comporta un’invisibile procedura di emendamento, se non di abrogazione. Insomma: diverso significato delle parole, diversa applicazione.

Può bastare un esempio: l’evoluzione del significato della parola “fedeltà”, registrato nelle sentenze della Corte di Cassazione, alimentato e poi riprodotto, in tutto il sistema delle relazioni personali. Da qualche anno, il termine tecnico giuridico di “contratto” è stato adottato spettacolarmente dalla politica. Si tratta dell’espressione più vigorosa che l’ordinamento conosca per indicare un legame di diritti ed obblighi reciproci, tanto da assumere “forza di legge tra le parti” , con le relative conseguenze risarcitorie per l’inadempimento di una di esse. Insomma, se c’è un Re nella disciplina del diritto, quello è il contratto. Si può dunque comprendere perché alla politica questa espressione sia tanto piaciuta. Dà il senso della serietà dell’impegno, della solidità, ai confini della indissolubilità.

Tuttavia una domanda sorge spontanea: la politica è proprio la casa giusta per il contratto? Non si tratterà per caso di un’appropriazione semantica indebita? Di un utilizzo lievemente improprio?

Questo, si badi, non per la natura dei protagonisti, ma per il terreno di utilizzo, che appare inadeguato a quella coltivazione.  Non è proprio la politica il territorio della mutevolezza, del cambiamento anche repentino di alleanze e strategie, tutte sempre giustificate e talvolta imposte da circostanze interne ed esterne? Cosa ci azzecca, si direbbe, Sua Maestà il contratto?

Non è che, per caso, in questa continua, reciproca contaminazione, anche la gente comune si abituerà a considerare il contratto in termini “politici”? Ossia quasi come il rosso del semaforo: più che un obbligo, un consiglio.

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