La ricchezza della lingua italiana è un patrimonio a cui la politica ha attinto a piene mani. Le sfumature delle parole consentono giochi dialettici e originali paraventi per celare sgradevoli comunicazioni. Un terreno classico su cui si misura da sempre, sotto diverse bandiere, l’abilità linguistica del nostro legislatore è quello fiscale; ad esempio, una nuova tassa può diventare “contributo di solidarietà”: è già molto meglio. Non si tratta di inganni, come qualche maligno potrebbe pensare, ma solo di sensibilità verso il contribuente, già vessato dalle asprezze della vita quotidiana, che non merita di essere ferito anche dalla durezza delle parole. E’ una questione di delicatezza.
In materia fiscale non meno fastidioso del pagare le tasse è sapere che per l’ennesima volta, evasori parziali o totali potranno essere gratificati dall’ennesimo condono. Sensazione sgradevole per chi è vessato senza scampo e ha sempre fatto il suo dovere. Questa percezione non sfugge al politico attento e soprattutto sensibile. Guai a parlare di ulteriore condono.
Volete che il nostro legislatore possa darci il dolore di riproporre ad ogni legislatura l’ennesimo condono fiscale che – di fatto – è uno degli strumenti destabilizzanti del sistema fiscale ordinario? E’ già difficile convincere i cittadini onesti a pagare imposte tra le più alte al mondo, lo sarebbe ancor di più se ogni due/tre anni si approvasse un condono che agevola evasori o esportatori di capitali all’estero.
Meglio non pronunciare parole sgradevoli. Molto meglio la “rottamazione delle cartelle”, (… erano vecchie non servivano più…) e la “rottamazione delle liti pendenti”; o lo “scudo fiscale”, che dà un senso di protezione, o il perdono fiscale che richiama un ambiente mistico; o la “voluntary disclosure” per la “regolarizzazione” dei redditi autonomi registrati all’estero, che dà un senso di modernità internazionale. Ma anche la “definizione agevolata” ed il “concordato fiscale” non dispiacciono: sono rassicuranti, danno un’idea di concordia, di volontà pubblica di superare i contrasti.
Ora il nuovo Governo, di fronte alla necessità di far cassa dopo aver sparato a zero sui ripetuti condoni, deve correre ai ripari: trovare un nuovo nome, onesto e rassicurante. Non facile, ma si può fare. Ecco la “pace fiscale”.
Bisogna riconoscerlo onestamente: l’idea di una “pacificazione fiscale” contenuta nel programma di Governo è degna di rilievo poetico; specie se accompagnata dalla l'esplicita esclusione di “ogni finalità condonistica”. La parola pace rassicura, dà il senso di uno Stato che ti coccola e ti vuole bene; non vuole stare “arrabbiato” con te. Vuole “fare pace” con te. Si proprio con te che non hai pagato. E con chi se no?
Quando la speranza del perdono fiscale si traduce in certezza costante, è un po’ difficile convertirsi alla rettitudine.