di Franco Caprio
medico dermatologo
Il tatuaggio rappresenta una modalità con la quale si decide di comunicare mediante la pelle. Se consideriamo che esistono diversi livelli di comunicazione, e precisamente il livello verbale (che corrisponde esattamente e semplicemente alle parole utilizzate in una conversazione o in un discorso), il livello paraverbale (fatto di pause, silenzi, tono della voce o contenuto ironico del testo) e il livello non verbale (dove intervengono la mimica, l’espressività, la postura, il modo di vestire etc), ebbene in questo ultimo livello comunicativo trova spazio anche la pelle. Tralasciando le sfumature di colore, che possono testimoniare patologie in atto (una per tutte il giallo itterico segno di compromissione epatica), pensiamo a due emblematici esempi di variazione di colore della cute che possono testimoniare il nostro stato d’animo, e cioè l’eritema pudico del volto collo e decolleté (che tradisce l’imbarazzo per ciò che si sta osservando e/o ascoltando) e il pallore terrifico (che tradisce invece la paura e che con una vasocostrizione periferica favorisce l’afflusso di sangue ai muscoli preparandoli alla fuga). Anche l’intensità della pigmentazione può comunicare informazioni e risentire fortemente della moda, condizionata sia dallo spazio e sia dal tempo. Se, per esempio, nella cultura orientale giapponese l’ideale di donna, ovvero la geisha, è pallida per antonomasia, per la razza caucasica a cultura occidentale l’intensità dell’abbronzatura ha risentito delle mode, potendo anche rappresentare uno status symbol, che è variato durante il secolo scorso con il mutare dell’economia sociale. Infatti, nella società prevalentemente rurale, durata sino alla metà del secolo scorso, il lavoro all’aria aperta determinava una pigmentazione scura, mentre la moda imponeva un modello di cute chiara che solo i benestanti potevano permettersi (un surrogato per rientrare canoni dettati dalla moda era quello di fasciarsi mani e volto o di usare un ombrellino durante il lavoro, quando possibile); invece, dopo il secondo dopoguerra, con il passaggio ad una società industriale, che costringeva al lavoro nelle fabbriche e quindi in ambiente chiuso, il modello dominante è divenuto quello di una cute iperabbronzata, a testimonianza della possibilità di fare sport all’aria aperta o viaggi esotici (anche in questo caso si è trovato un escamotage per tentare di seguire le tendenze, pur non avendo l’opportunità di vivere il sole in maniera diretta, con il ricorso cioè alle lampade abbronzanti a raggi UVA). La pelle inoltre, può essere utilizzata per dare rinforzo ad un messaggio, ricorrendo alla colorazione posticcia per sembrare, sempre in funzione di moda, cultura e circostanze, più seduttivi (con la cosmesi) o più aggressivi (vedi i colori di guerra dipinti sul volto di dei guerrieri indiani d’America, che in realtà avevano anche un significato scaramantico, cioè quello di andare incontro all’eventuale morte nelle condizioni di massimo decoro). Oppure, sempre in ambito bellico, il camuffamento del volto, che si uniforma a quello della divisa, può essere utilizzato a scopo mimetico, nel tentativo di annullare ogni modalità comunicativa.
Esiste poi un subdolo modo di utilizzare le potenzialità comunicative della pelle e la sua immediata percettibilità: la patomimia o dermatite fittizia o artefatta. In questo caso si mimano o ci si procura lesioni con duplice scopo: ottenere maggiori attenzioni da parte del circolo parentale oppure ottenere vantaggi economici (sindrome da indennizzo) o di tempo sottratto al proprio dovere lavorativo o militare (falsi inabili).
Quale miglior territorio, dunque, per comunicare le nostre scelte comunitarie o identitarie che siano, se non la pelle con il tatuaggio?
Il tatuaggio ha per secoli rappresentato una condizione di appartenenza comunitaria, innanzitutto tribale (per il quale l’esempio dei Maori è quello più rappresentativo), ma anche religioso (come nel caso dei paleocristiani e della loro croce tatuata, anche se poi tutte e le tre religioni monoteiste hanno vietato il tatuaggio permanente). Esso, dopo una fase di assenza nella società occidentale, sarà dunque riscoperto dopo le esplorazioni oceaniche e assumerà un significato di appartenza ad una categoria professionale (come nel caso dei marinai) o quale testimonianza del transito nella popolazione carceraria. Una scelta definitiva e irreversibile testimoniata dal tatuaggio e anche quella di appartenenza a una comunità criminale (come accade nella Yakuza giapponese, o negli Urka siberiani stanziati il Transnistria e raccontati nel romanzo “Educazione Siberiana” di Nicolai Lilin, o ancora la affiliazione ai più recenti clan transnazionali salvadoregni della Mara Salvatruca, MS-13). Dopo gli anni ’80, però, nella società occidentale inizia un processo di disgregazione e i valori comunitari vengono rapidamente sostituiti dall’individualismo identitario. La società, come analizza Zygmunt Bauman, diviene liquida. Vengono meno tutti i punti di riferimento e tutte le certezze: religione, autorità, matrimonio, affetti e lavoro. La modernità coincide con il fatto che “il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”. E in tale contesto che il tatuaggio si innesta come sfida all’ordine costituito, come imposizione del proprio io rispetto alla massa, come autocelebrazione del sé, come esempio di scelta certa e definitiva, al contrario della adesione alle mode che rappresenta la disponibilità al cambiamento. Ma, paradossalmente, avendo il tatuaggio una sua valenza estetica e in molti casi anche artistica, pure di alto livello, finisce per diventare moda. Per cui il volersi identificare mediante il tatuaggio, in una società dominata dalla cultura dell’apparire, significa assumersi il grande rischio di una scelta della quale ci si potrebbe pentire. Mettendo da parte i rischi dermatologici di infezioni, fenomeni allergici o di ritardata diagnosi di un melanoma, non dimentichiamo il danno estetico che in un futuro potrebbe derivare dalla rimozione di una neoplasia dermatologica, insorta all’interno di un tatuaggio artistico finemente realizzato. Non dimentichiamo neppure che con l’allungarsi dell’età media, nella cute di un anziano, asfittica ed anelastica, l’eventuale perfezione estetica del tatuaggio verrebbe a perdersi. Nel momento in cui il tatuaggio permanente diventa moda, come ogni moda farà i suoi proseliti, ma farà anche le sue vittime. Si consideri che attualmente, viene richiesta la rimozione (dolorosa, costosa e non senza esiti cicatriziali) di una elevata percentuale, circa il 40%, dei tatuaggi eseguiti. A tal proposito deve far riflettere il fatto che inserendo, sul motore di ricerca Google, le parole “rimozione tatuaggi” scaturiscono otto suggerimenti di ricerche correlate e 36 pagine di risultati. Naturalmente occorre fare le debite differenze tra il risultato estetico ottenuto affidando il lavoro ad un tatuatore improvvisato, ad un discreto artigiano o ad un vero e proprio artista. E ciò, come pure la armoniosità del corpo e della sede corporea che accoglie il tatuaggio, potranno mettere in discussione la convinzione della scelta “definitiva” fatta a suo tempo. Anche le dimensioni le caratteristiche cromatiche e il tema del disegno comunicheranno informazioni sulla personalità del soggetto tatuato, che può variare da chi vuole ostentare semplicemente un vezzo, a chi vuole esprimere un’identità eccentrica o artistica (tratto schizotipico, convenzionalmente accettato) ed una personalità propriamente schizoide (per esempio come nel caso di eccessi dove ogni singola parte del corpo e ricoperta di tatuaggi e di piercing). Ben venga dunque il tatuaggio ma con la consapevolezza che si tratta di una subdola scelta identitaria (purtroppo non facilmente reversibile), che risente comunque della moda. Infatti è molto probabile che, fra qualche decennio, quando i futuri giovani vedranno un anziano tatuato in spiaggia, sarà come, per noi, vedere ora un nostalgico rockabilly con i basettoni, un hippie con i pantaloni a zampa d’elefante o un paninaro che indossa una giacca con spalline.