L’eufemismo è una figura retorica molto comune. Consiste nel sostituire, per scrupolo religioso, morale o sociale, una parola offensiva o negativa con altre di significato attenuato; insomma, un’espressione gentile per lenire l’asprezza del contenuto, anche per rispetto dell’altrui sensibilità.
Nessun campo è escluso; nella conversazione amichevole una signora bassa è “una donna non altissima”, nel commento sportivo “l’attaccante poteva far meglio”, nel commiato finale si “passa a miglior vita”, fino alla scuola, regno contrastato degli eufemismi imposti normativamente : il bocciato è “non promosso” o “non ammesso alla classe successiva”, e via eufemizzando.
Insomma, qualunque sia il contesto, l’eufemismo , (che è altro dall’ipocrisia) ha un suo importante ruolo.
Fino a qualche anno fa, nel linguaggio politico l’eufemismo era il caustico alimento della polemica aperta tra opposte fazioni, frutto di intelligenza ed eleganza corrosiva ma anche di un sacro rispetto dei ruoli, del prestigio delle istituzioni e delle regole democratiche anche non scritte.
Nella società politica odierna esso è in disuso, in omaggio ad un linguaggio più diretto ed efficace; il “cambiamento”, si dice, comporta anche una sintassi più semplice ed un lessico meno colto. I rappresentanti politici si rivolgono ormai direttamente al pubblico senza mediazione, con un linguaggio di immediata presa. Ma ciò nasconde più di un’ insidia.
Le ricerche linguistiche rilevano, nell’ambito politico, una vera e propria capitolazione dell’eufemismo e, di contro, “un’inflazione di disfemismi” ossia di usi linguistici irrispettosi delle convenzioni che in passato regolavano l’uso di parole interdette e lo stesso registro del discorso politico. Nella disputa politica le espressioni sono diventate sempre più dirette, volgari , infamanti, spesso usate per colpire o distruggere l’avversario; e così il turpiloquio, i gesti plateali, gli slogan urlati nelle piazze, come fossero sintesi di programmi politici (si pensi al Vaffa-day), sono divenuti la regola .
Purtroppo non si tratta solo di un problema di forma o di educazione, ma di una deriva che può condurre a conseguenze ben più serie: le espressioni infamanti di questi giorni verso i giornalisti non sono il segno di una innovazione goliardica. Definire i giornalisti, come ha fatto un ex deputato molto attivo sui social media, “signorine di facili costumi esercenti il mestiere più antico del mondo” (eufemismo del redattore) non è il segno di una maggiore informalità, di un nuovo linguaggio semplice, comprensibile e concreto della politica nuova; non è un innocuo prodotto del degrado del livello del dibattito pubblico. Queste frasi sono qualcosa di più della (implicita) minaccia alla libertà dei singoli giornalisti; questo “disfemismo” è più insidioso di quanto non possa sembrare, poiché colpisce uno dei fondamenti dell’impianto costituzionale, intimamente connesso alla esistenza stessa della democrazia.
La storia ha insegnato che ci sono àmbiti talmente delicati che non possono essere intaccati senza provocare colpi all’impianto democratico. La libertà di stampa garantita dall’art. 21 della Costituzione è libertà del giornalista, pluralismo della informazione, libertà di critica, dialettica, alimento della democrazia.
Qualcuno potrebbe obiettare che la stessa libertà di espressione dovrà essere riconosciuta al deputato, all’ex deputato o al Ministro, come a chiunque voglia deliberatamente diffamare qualcun altro o il suo avversario politico, rispondendo eventualmente nelle appropriate sedi giudiziarie; ma sarebbe un grave errore di prospettiva.
L’attacco violento e volgare ai giornalisti non allineati al potere non è la diffamazione del singolo o di un partito, è una insidia ai fondamenti della libertà di ciascuno di noi, perché colpisce inevitabilmente uno degli elementi vitali degli equilibri democratici. Temo, per usare un eufemismo, che la libertà di stampa “non goda, oggi, di ottima salute”.